Responsabilità memetiche

Il 17 aprile ho partecipato a un conferenza sullo shitposting organizzata in Statale. Erano presenti, come relatori, l'admin di Pagliare Hhhhpostijng, l'admin di Memes Sublimes?, uno degli admin di Cinefirns e altri due di cui, onestamente, non ricordo la pagina, ma, per carità, simpaticissimi. Ora, tra le domande che sono state poste a questi admin, c'è stata quella della responsabilità dei meme nella formazione di una persona. L'esempio era quello del killer di Christchurch, che, nel suo Manifesto, ha dichiarato la propria vicinanza al mondo dei meme. Naturalmente la stampa (certa stampa) ha focalizzato l'attenzione su questo singolo particolare a discapito di chissà quanti altri, e ha prontamente riconosciuto nei meme la fonte del disagio psichico dell'assassino*. Come hanno risposto i cinque relatori a questa provocazione?

Non possono accusarti di spargere l'odio coi meme se non metti la frase d'odio

Innanzitutto, credo non sia male spiegare cosa si intenda per shitposting. Lo sapete, ne sono certo, ma repetita iuvant, e si sa mai che io e voi pensiamo a cose diverse, come scrivevo in un vecchio articolo a proposito di Quine. Comunque si può dire di shitposting quello che Sant'Agostino diceva del tempo: che sappiamo cosa sia finché non ce lo domandano. Per comodità definiamo shitposting o merdapostaggio un insieme non eterogeneo di contenuti virtuali che va dai meme, in particolare quelli di secondo o terzo livello o superiori (quelli cioè che si riferiscono a meme di un livello inferiore, e mi perdoni Russell se uso così il suo lavoro sulle proposizioni logiche. Insomma sono quei meme che, per essere capiti, necessitano di una certa conoscenza pregressa del mondo dei meme), e di contenuto politicamente scorretto o degradante - e arriva fino alla pubblicazione di lunghi stati a flusso di coscienza, dal contenuto autobiografico o delirante. Naturalmente per poter essere definite shitposting queste cose devono essere volontarie e ponderate: deve cioè non solo sussistere la volontà di creare simili contenuti, ma anche una certa consapevolezza dell'effetto che eserciteranno sul pubblico.

Questo potremmo tranquillamente definirlo un meme di secondo livello.

Va bene: questa definizione entrerà nei manuali di filosofia e di comunicazione. Ma torniamo al punto dell'articolo. Qual è la responsabilità dei meme negli attentati di Christchurch, e, più in generale, che effetto hanno sulle persone? Gli admin ospiti hanno prontamente negato che i meme possano avere qualunque effetto: essi sono qualcosa che nasce e finisce in un soffio, servono a strappare una risata, ed è impensabile che abbiano potuto ispirare qualcosa come un massacro. Scemo o in malafede chi non la pensa così. Facevano poi notare che l'attentatore doveva di certo essere una persona disturbata, e che nei meme probabilmente aveva trovato solo ciò che voleva trovare, senza che per questo essi (i meme) fossero da incolpare.
Sono in parte d'accordo con questa risposta. Non bisogna essere le persone più equilibrate del mondo per arrivare alla conclusione che se ti piace Pepe le Frog allora ammazzare degli sconosciuti sia la scelta più giusta, ma siamo sicuri che l'ambiente con cui è venuto a contatto non abbia avuto effetto su di lui - così come su tutte le altre persone, anche quelle meno compromesse? In altre parole i meme sono un prodotto culturale, e in questo senso sono prodotti dalla cultura; ma come ogni prodotto culturale essi influenzano la cultura stessa, la modificano, e anzi l'hanno modificata al di là di ogni dubbio fin dal loro apparire. Senza tirare in ballo l'effetto sull'elezione di Trump che certi analisti hanno riscontrato nei meme di estrema destra, non è difficile capire che i meme creator non possono lavarsi le mani del mondo al di là del loro schermo, come se fosse qualcosa con cui non hanno a che fare. Nessuno può. Un esempio: una delle parole più frequenti nello shitposting "estremo" è la famigerata n-word, "negro"; e vederla la prima volta, declassata a battuta, fa su chiunque un certo effetto. La decima volta che la si vede, ecco che abbiamo già subito un processo di desensibilizzazione, e non ci indigna più, anzi, ridiamo tranquilli proprio per la sua presenza. Humor nero? Forse, e legittimo quanto volete, ma fatto sta che alla fine di un percorso del genere non farà più senso usare parole come "negro", o "frocio", o persino l'espressione "sporco giudeo", che sono tutte altamente deumanizzanti. Da qui a dire che adesso esco e ammazzo tutti i musulmani che trovo - è ovvio! - ce ne corre, ma qualcosa mi è successo. Ancora, dire che Israele non è uno Stato legittimo, che è la punch line di un meme di qualche tempo fa, per carità, fa ridere, ma fornisce una risposta pronta a un problema altamente complesso, e delicato, e in cui si tirano in ballo questioni di politica internazionale e di diritti umani non da poco. 


Ecco, questa è la mia opinione. Uno studente venuto ad ascoltare la conferenza - che, ad occhio, doveva studiare filosofia o giù di lì -, che un tempo era un meme creator ma ora si è allontanato da quel mondo (oddio, sembra chissà quale scelta di rottura, ma non è un pentito né niente; solo, diciamo, ci ha pensato bene), ha fatto notare che i meme hanno un effetto megafono, e tendono ad ingigantire, con un processo simile all'orgasmo, facendo cioè interagire attesa psicologica e risposta fisiologica, qualunque messaggio. L'admin di Pagliare Hhhhpostijng, oltre a farmi morire dal ridere sulla sua pagina, si è dimostrato persona non dappoco: ha detto di essersi allontanato a sua volta dai meme perché tendono ad appiattire il discorso, e non so se intendeva dire che semplificano all'inverosimile messaggi complessi, se spostano il focus di questi messaggi trasformandoli in barzellette, o se non ammettono repliche (e infatti lo sappiamo tutti cosa succede a chi replica a battute politicamente scorrette: viene seppellito), o, ancora, se finiscono per mettere in contatto persone che la pensano già allo stesso modo, sfavorendo così un dialogo tra idee opposte. Più probabilmente, intendeva tutte queste cose. Faceva inoltre notare che gran parte della vis comica di un meme è data dalla sensazione di averlo capito, al contrario di chissà quanti altri internauti, che sono tagliati fuori da questa sottocultura. È quindi una forma di intrattenimento altamente elitaria, che cioè favorisce la formazione di élite intellettuali (ma tutte le forme d'arte lo sono). Ed è abbastanza vero, dico io: data un'ipotetica sfera dei meme, essa avrà la circonferenza in continua espansione per aggiunta di materiale al suo centro (nella forma di meme di x-esima generazione, sempre più involuti); e, se sarà facile comprendere i meme che si trovano alla sua periferia, quelli al suo centro saranno comprensibili da un numero sempre più ridotto di persone.

In conclusione, è sicuramente vero che non bisogna dare la colpa ai meme per il massacro di Christchurch, limitandoci in questo senso a un rapporto di causazione diretta (che è, diciamolo una buona volta, sempre chimerico, qualunque sia l'argomento), e che potrei postare foto di alberi addobbati tutto l'anno e una persona disturbata ci leggerebbe comunque quello che vuole. Ma è anche ingenuo sostenere che i meme, una volta diffusi, lascino la realtà così come l'hanno trovata. 
A conti fatti è stata una bella conferenza. Vi invito a mettere like alle pagine segnalate. Io sarò pure critico quanto volete, ma sono anche un appassionato di shitposting - il che non mi rende cieco.
Mi riservo di parlarvi ancora in futuro di meme, la forma d'arte più amata dalla mia generazione. Fino ad allora face front, True Memers!




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* La stampa non è nuova a questo giochetto. Ricordiamo che, ai tempi del massacro della Columbine, fu data la colpa di tutto ai Nirvana; e, nel cortile di casa nostra, quando furono arrestati alcuni ragazzi che si divertivano a buttare sassi dai cavalcavia sulle macchine che passavano, la colpa di averli plagiati è stata di Ken il Guerriero. Lasciamo stare, ché è vero che bisogna stare attenti a fare il salto da una semplice correlazione a un rapporto di causazione - ma qui non c'era neppure la correlazione.

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