Le lezioni americane di Italo Calvino: Leggerezza, Rapidità, Esattezza
Nel 1985 Italo Calvino si apprestava a tenere una serie di
conferenze, o lectio, presso
l'Università di Harvard, riguardanti la letteratura e la forma che essa avrebbe
assunto nel millennio incombente. Le lectio
non vennero completate a causa della morte di Calvino nel settembre di quello
stesso anno.
Nelle bozze delle conferenze Calvino elenca una serie di antinomie: leggerezza vs. pesantezza, rapidità vs. divagazione... Si
schiera dalla parte di uno dei due termini, riconoscendo in quello e non
nell'altro una caratteristica della propria particolare letteratura, ma senza
condannare l'altro, anzi a suo modo riconoscendone le ragioni. Ho pensato che
sarebbe stato bello, per una volta, discutere non delle regole che dovreste
seguire per scrivere (come di solito si fa sui blog), ma delle forme che
potrebbe potenzialmente assumere la vostra scrittura. Iniziamo quindi ad analizzare le lezioni
americane di Italo Calvino, le "proposte per il prossimo millennio".
PRIMA PROPOSTA: LEGGEREZZA
La prima lezione di Calvino è sulla leggerezza. Leggerezza assume un triplice significato:
1.
Un alleggerimento del linguaggio per cui i
significati vengono convogliati su un tessuto verbale come senza peso, fino ad
assumere la stessa rarefatta consistenza.
Col che si intende che la scelta dei termini debba essere la più possibile "leggera", la meno gravosa. E davvero la
scelta dei termini, così come la struttura della frase, non è meno importante
della scelta del contenuto. Una frase breve, secca, piena di suoni aspri, ha un
effetto diverso da una frase piena di suoni dolci e magari subordinate. Questo
pur rimanendo nella trasparenza dell'autore (la grammatica, se bene usata,
tende a non interessare più di tanto il lettore; che tuttavia ne viene
influenzato). Fermo restando che, nel dubbio, va bene adottare uno stile neutro
e concentrarsi sul contenuto, ricordiamoci che i grandi scrittori sono grandi
anche per il loro stile. E qualunque liceale saprebbe distinguere un'opera di
Cesare da una di Cicerone.
Faccio un esempio che chiunque potrà capire: Dante.
Una delle capacità più ammirevoli di Dante è proprio quella di saper adeguare
il proprio stile al messaggio. In Dante, così come in ogni grande scrittore, il
contenuto è anche la forma. Per questo quando leggiamo l'Inferno ci sembra di
essere impantanati nel fango, di essere lenti e goffi e in contatto con quanto
c'è di peggio nella natura umana (pur con tutte le variazione del caso - Paolo
e Francesca non sono il Conte Ugolino); e quando leggiamo il Paradiso, man mano
che i discorsi si fanno più astratti e la luce soffonde ogni cosa, ci pare di staccarci
da tutto ciò che è corporeo e di librarci in aria... di trasumanare. Prendiamo
l'incipit del Canto XXIII del Paradiso:
Come l'augello, intra l'amate
fronde,
posato al nido de' suoi dolci
nati
la notte che le cose ci
nasconde,
che, per veder li aspetti
disïati
e per trovar lo cibo onde li
pasca,
in che gravi labor li sono
aggrati,
previene il tempo in su aperta
frasca,
e con ardente affetto il sole
aspetta,
fiso guardando pur che l'alba
nasca;
così la donna mia stava eretta
e attenta, rivolta inver' la
plaga
sotto la quale il sol mostra men
fretta:
sì che, veggendola io sospesa e
vaga,
fecimi qual è quei che disïando
altro vorria, e sperando
s'appaga.
Poche strofe soffuse di immagini di luce, di uccelli,
di sospensioni e di vaghezza; non solo nel contenuto ma
anche nel suono. Davvero Dante è il perno su cui si tiene in equilibrio tutta
la letteratura successiva, e la torretta da cui siamo costretti a guardare
tutta la letteratura precedente.
Continua Calvino, sul secondo significato della
leggerezza:
2.
La narrazione d'un ragionamento o d'un processo
psicologico in cui agiscono elementi sottili e impercettibili, o qualunque
descrizione che comporti un alto grado di astrazione.
Vi rimando a Dante, ancora, in riferimento a questo
passo. Curioso anzi che in questa proposta, che sembra fatta apposta per lui, Calvino
citi solo di sfuggita - e in contrapposizione a Guido Cavalcanti - Dante. Ma in
fondo tutti gli scrittori fanno fatica a liberarsi dall'ombra dei propri
maggiori.
Ultima valenza di leggerezza,
3.
Un'immagine che assume un valore emblematico [di
leggerezza].
L'augello che svolazza intra l'amate fronde, in
attesa dell'alba. Un corrispettivo contenutistico alla leggerezza, che evochi
in noi immagini di leggerezza e che ci faccia provare, tramite un'associazione
di idee e sentimenti, la leggerezza.
La leggerezza, io credo, fornisce alcuni innegabili vantaggi
a chi sappia usarla. Chi è leggero sta sopra, e domina tutto dall'alto. Scrive
velocemente e dolcemente. Legolas, l'elfo di Bosco Atro, quando tutti i membri
della Compagnia dell'Anello sprofondarono nelle nevi del Caradhras, riesce a
correre sull'inconsistente strato di neve senza rallentare e senza bagnarsi.
Un caveat, prima di passare alla prossima proposta.
Leggerezza non significa frivolezza, come ci tiene a precisare Calvino. E
in fondo, chi è più lontano dalla frivolezza di Dante? Leggerezza val forse più
per lievità, per capacità di scrivere senza affondare, per sguardo ironico (e
l'ironia, lo humour, è una forma alleggerita della risata, come la melanconia
lo è della tristezza), distaccato e saggio del filosofo. Allo stesso modo, per
un'antica setta gnostica gli psichici (gli spirituali in greco) erano più
vicini a Dio degli ilici (i materiali), e gli pneumatici (da pneuma, soffio, ma
qui val più leggero dell'anima) lo erano più di tutti e due.
Da quanto ho detto fin qui mi
pare che il concetto di leggerezza cominci a precisarsi; spero innanzitutto
d'aver dimostrato che esiste una leggerezza della pensosità, così come tutti
sappiamo che esiste una leggerezza della frivolezza; anzi, la leggerezza
pensosa può far apparire la frivolezza come pesante e opaca.
Concludo con un piccolo mito, che spero vi aiuti a
capire meglio che questa benedetta leggerezza non è nulla meno della
pesantezza, sebbene molti nutrano la fantasia dello scrittore minatore
dell'animo umano che ammorba il lettore con la gravità dei propri minerali
interiori. Più una scrittura è pesante, più il contenuto dev'essere importante,
si crede: non ridete, perché è l'equazione più facile del mondo. Tant'è che
molti scrittori alle prime armi si sforzano di essere il più possibile oscuri.
Lo scrittore dovrebbe essere invece più simile a un alchimista, che trasforma
il piombo, il metallo pesante per antonomasia, in oro (che è anche molto
pesante, e mi spiace perché altrimenti sarebbe stata una metafora davvero azzeccata).
Calvino propone, a inizio della lezione, il famoso mito
di Perseo, che calza i sandali di Mercurio (leggerezza) e sconfigge la Gorgone,
col potere di trasformare in pietra i viventi (pesantezza). Io, alla fine di
questo commento, ve ne propongo un'altra. La mitologia da cui è tratta non è
greca ma scandinava, e per questo può essere che per alcuni giunga nuova (nulla di male: noi siamo figli della mitologia greca e romana, ma abbiamo
avuto relativamente poco a che fare con le altre mitologie, anche a livello
scolastico). Racconta la storia del lupo Fenris, il figlio di Loki, talmente
grande che un giorno, quando arriverà il Ragnarok, divorerà il Sole in un
boccone. Persino gli Aesir, gli dèi di Asgard, hanno paura di lui, e così decidono
di incatenarlo. Ma cosa può resistere alla forza del lupo? È necessaria la
leggendaria abilità dei nani per forgiare la catena. Si chiama Gleipnir, e i
suoi anelli sono il rumore del passo di un gatto, la barba di una donna, le
radici di una montagna, i tendini di un orso, il respiro di un pesce e la
saliva di un uccello. Badate, molti di questi materiali sono stati scelti
perché, per gli scaldi, erano sinonimo di "cosa impossibile"; ma non
è la loro inesistenza la caratteristica a cui vorrei prestaste attenzione; bensì la loro impalpabilità. Sono, per la maggior parte, come gli
pneumatici: soffi più leggeri dello spirito. Fenris, che è l'immagine della
potenza e dell'irruenza, non riuscirà a spezzare la catena fino all'arrivo del
Ragnarok. La leggerezza e non la pesantezza (che è una sua prerogativa, lui, il
più materiale dei mostri) lo soggioga.
SECONDA PROPOSTA: RAPIDITÀ
Per rapidità non si intende la fretta. La fretta è anzi un'acerrima
nemica della scrittura. Quando si scrive, ci si deve poter prendere tutto il
tempo che serve: sia il tempo per noi di scrivere sia il tempo della
narrazione. Quello che Calvino intende per rapidità è la densità: densità di
avvenimenti ma anche di ragionamenti (come si vede in uno dei suoi racconti
migliori, Ti con Zero). Le ragioni della rapidità sono bene esposte da Leopardi
nello Zibaldone, quindi, per essere rapido, lascio la parola a lui:
La rapidità e la concisione
dello stile piace perché presenta all'anima una folla d'idee simultanee, così
rapidamente succedentisi, che paiono simultanee, e fanno ondeggiar l'anima in
una tale abbondanza di pensieri, o d'immagini e sensazioni spirituali, ch'ella
o non è capace di abbracciarle tutte, e pienamente ciascuna, o non ha tempo di
restare in ozio, e priva di sensazioni. La forza dello stile poetico, che in
gran parte è tutt'uno colla rapidità, non è piacevole per altro che per questi
effetti, e non consiste in altro. L'eccitamento d'idee simultanee, può derivare
e da ciascuna parola isolata, o propria o metaforica, o dalla soppressione
stessa di altre parole o frasi ec.
È la rapidità di contenuti, dice il poeta di
Recanati, che solletica la maggiore emozione nel lettore; la qual cosa è
innegabile.
La lezione della rapidità, Calvino la impara mentre
sta compilando la sua antologia sulle Fiabe Italiane. Le fiabe sono esattamente
così: mille cose che avvengono e poco tempo per raccontarle. Certo io non vi
dico di scrivere una fiaba, ma prendete per esempio questa:
Un Re s'ammalò. Vennero i medici
e gli dissero: "Senta, Maestà, se vuol guarire, bisogna che lei prenda una
penna dell'Orco. È un rimedio difficile, perché l'Orco tutti i cristiani che
vede se li mangia".
Il Re lo disse a tutti ma
nessuno ci voleva andare. Lo chiese a un suo sottoposto, molto fedele e
coraggioso, e questi disse "Andrò".
Gli insegnarono la strada:
"In cima a un monte, ci sono sette buche: in una delle sette, ci sta
l'Orco".
L'uomo andò e lo prese il buio
per la strada. Si fermò in una locanda...
E questo il commento di Calvino:
Nulla è detto di quale malattia
soffra il re, di come mai un orco possa avere delle penne, di come siano fatte
queste buche. Ma tutto ciò che è nominato ha una funzione necessaria
nell'intreccio; la prima caratteristica del folktale
è l'economia espressiva; le peripezie più straordinarie sono raccontate
tenendo conto solo dell'essenziale [...].
L'economia espressiva è davvero una delle migliori
armi di cui dispone lo scrittore, ma sono sempre in pochi quelli che decidono
di usarla. Questo perché è difficile pensare a usarla, ed è ancora più
difficile usarla per davvero. State attenti, adesso! Densità di avvenimenti fa
rima con velocità, e rischia di cozzare con quell'altra regola/suggerimento di
cui si parla sempre, quella del mostrare e non raccontare.
In realtà nulla di questa favola è propriamente raccontato: è solo stringato...
e qui sta il trucco; ma il mio suggerimento è di essere cauti all'inizio, quando
si parla di rapidità, e di preferire a una serie di avvenimenti un singolo
avvenimento da sviscerare pian piano.
Un'ultima nota per comprendere cosa Calvino intendesse
(e infatti, così come per leggerezza, in Calvino ogni concetto sembra assumere
svariate forme, e sgusciare da un significato all'altro senza che noi ce ne accorgiamo).
Calvino non oppone la rapidità alla lentezza, bensì alla divagazione. Fa un
esempio che mi è molto caro: il Tristram Shandy di Sterne. Non lo fa per condannarlo - come potrebbe?
- ma solo per mostrarci l'altro lato della medaglia: il Tristram Shandy non
arriva mai al punto; quando parla di rapidità, al contrario, Calvino sembra
consigliare di non abbandonare mai il punto, e di insisterci finché la storia
da raccontare non è stata tutta raccontata.
TERZA PROPOSTA: ESATTEZZA
Ancora una volta, l'esattezza in Calvino ha tre
diverse accezioni. Esatto è
1.
Un disegno dell'opera ben definito e ben
calcolato;
2. L'evocazione d'immagini visuali nitide,
incisive, memorabili; in italiano abbiamo un aggettivo che non esiste in
inglese, "icastico" [...];
3. Un linguaggio il più preciso possibile come
lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell'immaginazione.
Facile spiegare i tre punti. Il secondo e il terzo li affronteremo in un altro articolo, per non allungare troppo il brodo di questo, ma qui concentriamoci sull'importanza di saper evocare
immagini nella mente del lettore (torneremo su questo punto nella quarta
proposta di Calvino, la Visibilità); e l'utilizzo di un linguaggio
il più possibile preciso, ma anche
diretto, senza giri di parole, che solo allungano il brodo e annacquano
l'emozione. Per il primo punto diremo invece che la precisione non va intesa solo nella forma, ma anche nel contenuto:
sono vietati i buchi di trama e i non sequitur.
Che soddisfazione leggere una storia ben architettata, con un inizio uno
svolgimento e una fine, che ci dia l'impressione che l'autore sapesse quello
che stava facendo!
Quel che mi interessa
di più, in questo momento, è farvi capire l'importanza dell'esattezza - o,
meglio, della precisione - nella scelta del linguaggio. Noi siamo scrittori, e
il linguaggio è il nostro strumento. Non solo: noi siamo uomini, e il
linguaggio è la sostanza stessa di cui sono fatte le nostre anime. Si parlava
di questo già a proposito della leggerezza; ora sentiamo cosa ne pensa Calvino:
[...] mi sembra che il
linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne
provo fastidio intollerabile. [...] il fastidio peggiore lo provo sentendo
parlare me stesso. Per questo cerco di parlare il meno possibile, e se
preferisco scrivere è perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte
quanto è necessario per arrivare non dico a essere soddisfatto delle mie
parole, ma almeno a eliminare le ragioni d'insoddisfazione di cui posso
rendermi conto.
E qui si vede che Calvino difende anche l'importanza,
sconosciuta per motivi lavorativi, ad esempio, ai romanzieri pulp, della
rilettura.
La letteratura - dico la
letteratura che risponde a queste esigenze - è la Terra Promessa in cui il
linguaggio diventa quello che veramente dovrebbe essere.
Vi spiego questo passaggio, che Calvino abbandona a
se stesso, perché credo che esso possa essere illuminante. Una convinzione magica,
diciamo appartenente all'occultismo medievale, e derivata da quel passo della
Bibbia che dice che Dio dette all'uomo il potere di dominare le cose e
nominarle, interessa il potere dei nomi. Se uno conoscesse il Vero Nome di una
persona o di un oggetto - dice la tradizione -, avrebbe potere su di lui.
Ricordiamo che Iside, la grande maga della mitologia Egizia, riuscì a ingannare
il Dio supremo Ra e a impossessarsi del suo Vero Nome, e così a dominarlo.
Anche i sacerdoti egizi conoscevano il nome segreto di Ra, dal che ne consegue
che nell'Antico Egitto non erano i sacerdoti a servire gli dèi (almeno, non i
sacerdoti d'alto rango), ma viceversa. Per questo motivo nella tradizione kabbalistica ebraica si dice che chi riuscisse a scoprire il Vero Nome di Dio,
l'impronunciabile e augusto Tetragrammaton (impronunciabile sia perché
terribile, sia perché davvero non abbiamo idea di come pronunciarlo. Di solito
le Quattro lettere del Nome, Yod Eh Vau Eh, noi le leggiamo come Yahvè, o al
massimo come Geova, e ci mettiamo in pace la coscienza) diventerebbe
onnipotente. La kabbalah riconosce il potere plasmatore del linguaggio più di
ogni altra tradizione di cui io sappia. Ed è una fantasia cara ai linguisti
quella di una lingua che possegga un termine specifico per ogni oggetto; non
una serie di termini generali (uomo, cane...) e qualche nome proprio, scelto a
caso (Stefano, Fido...); ma una lingua in cui il termine è l'esatta descrizione
di ciò che definisce. La lingua analitica di Wilkins, ad esempio, infinita e
spesso arbitraria, è un tentativo in quella direzione: ogni parola contiene
(conterrebbe) tutti i dati scientifici relativi alla cosa che definisce. Ma la
lingua di Wilkins è un sontuoso fallimento che forse potreste
approfondire in qualche corso di linguistica, e che qui è meglio lasciare
perdere.
Una nota. Calvino paragona la sua ricerca dell'esattezza
con l'opera di Leopardi, uno dei grandi teorici della scrittura, che è per
l'appunto poeta della vaghezza... e trema. Proprio nello Zibaldone Leopardi
definisce la vaghezza "poeticissima" (vago non in senso di grazioso,
come potrebbe essere per Dante qui sopra; ma proprio nel senso di nebuloso,
indeterminato). È facile risolvere la frattura: sempre nello Zibaldone, vediamo
che Leopardi enumera una serie sconcertante di situazioni che possano evocare
"vaghezza", e con che occhio per il dettaglio:
[...] la luce del sole o della
luna, veduta in luogo dov'essi non si vedano e non si scopra la sorgente della
luce; un luogo solamente in parte illuminato da essa luce; il riflesso di detta
luce, e i vari effetti materiali che ne derivano [...].
La vaghezza di Leopardi è quindi solo una vaghezza
programmatica, ma per raggiungerla quanta precisione deve usare il poeta!
[QUI la seconda parte dell'articolo]
Commenti
Posta un commento