Le lezioni americane di Italo Calvino: Visibilità, Molteplicità, Cominciare e Finire
[QUI la prima parte dell'articolo sulle Lezioni Americane]
Nel 1985 Italo Calvino si apprestava a tenere una serie di conferenze, o lectio, presso l'Università di Harvard, riguardanti la letteratura e la forma che essa avrebbe assunto nel millennio incombente. Le lectio non vennero completate a causa della morte di Calvino nel settembre di quello stesso anno.
Nelle bozze delle conferenze Calvino elenca una serie di antinomie: leggerezza vs. pesantezza, rapidità vs. divagazione... Si schiera dalla parte di uno dei due termini, riconoscendo in quello e non nell'altro una caratteristica della propria particolare letteratura, ma senza condannare l'altro, anzi a suo modo riconoscendone le ragioni. Ho pensato che sarebbe stato bello, per una volta, discutere non delle regole che dovreste seguire per scrivere (come di solito si fa sui blog), ma delle forme che potrebbe potenzialmente assumere la vostra scrittura. Iniziamo quindi ad analizzare le lezioni americane di Italo Calvino, le "proposte per il prossimo millennio".
QUARTA PROPOSTA: VISIBILITÀ
Avrete già capito che quello che vorrei fare, con questi articolio, non è spiegarvi pedissequamente il pensiero di Calvino (se vi incuriosisce,
vi basti leggere le Sei Lezioni in raccolta); piuttosto voglio estrarre dal suo
testo ciò che penso possa interessarvi, o esservi più utile, e
arricchirlo con qualche filone a cui Calvino non aveva pensato, o che forse
aveva scartato, ma che a me pare importante.
Dunque, visibilità. Calvino per visibilità intende la
capacità dello scrittore di suscitare immagini nella mente del lettore,
[...] leggiamo per esempio una
scena di romanzo o il reportage d'un avvenimento sul giornale, e a seconda
della maggiore o minore efficacia del testo siamo portati a vedere la scena
come se si svolgesse davanti ai nostri occhi, o almeno frammenti e dettagli
della scena che affiorano dall'indistinto.
di cui abbiamo già discusso nella quarta lezione. Ma
la visibilità riguarda anche la capacità, del tutto immaginativa, di gettare un
ponte tra esterno e interno. Cosa significa? Stavolta non è Calvino ma Thomas Eliot a venirci in aiuto. Eliot, nella sua teoria estetica, parla dei
correlativi oggettivi, cioè di oggetti la cui presenza (o, attraverso la lettura,
la cui immagine) permette la nascita di certi sentimenti o di certe emozioni.
Trovare dei correlativi oggettivi a un'emozione è l'unico modo per scrivere di
quell'emozione, sostiene Eliot. Io credo sia a questo che Calvino pensava,
anche se non lo dice chiaro e tondo; e non lo dice neppure passando per
Montale, la cui raccolta Ossa di Seppia presenta fin dal titolo un celeberrimo
caso di correlativo oggettivo.
Il correlativo oggettivo è parente dell'allegoria,
che usa un'immagine concreta per trasmettere un'idea astratta; ma, mentre
quella è un'idea emotiva, questa è un'idea razionale. Attenzione perché stiamo
puntando verso il cuore della letteratura - non a caso sul significato di
allegoria ci si è sempre battuti, e io qui vi presento la definizione che mi
sono costruito nel corso degli anni. L'allegoria e il correlativo oggettivo si
differenziano da, mettiamo, il simbolo o la metafora, perché sono sia l'oggetto
concreto (e l'azione concreta, spesso inscindibile dall'oggetto che la
performa) che l'idea astratta. Questo non è bipensiero orwelliano: è solo il
funzionamento della letteratura, che riesce a far coesistere le cose più
disparate sulla carta. Ci stiamo avvicinando a un tipo di pensiero orientale e
abiuriamo a certi principi della logica che, nella vita di tutti i giorni,
dovremo stare attenti a esercitare sempre. Ma leggere non è un'attività per
sprovveduti.
La quarta proposta contiene anche pagine in cui IL Calvino ci spiega com'era abituato a scrivere, quando si buttò sui
testi di genere fantastico. Iniziava con un'immagine puramente visiva,
Per esempio, una di queste
immagini è stata un uomo tagliato in due metà che continuano a vivere
indipendentemente; un altro esempio poteva essere il ragazzo che s'arrampica su
un albero e poi passa da un albero all'altro senza più scendere in terra;
un'altra ancora un'armatura vuota che si muove e parla come ci fosse dentro
qualcuno.
Procedeva poi ad arricchire l'immagine, a
sviscerarla, e a costruirci sopra; poi passava alla scrittura. E qui il
processo diventa molto più interessante: la scrittura prende il sopravvento
sull'immagine, e se, all'inizio, Calvino scrive per descrivere l'immagine, poi
lascia che sia la scrittura a trasformare l'immagine come vuole, e la segue
dove scorre più facilmente. È una sensazione difficile da spiegare a chi non
l'abbia mai provata, e forse è da questa che deriva il mito dell'autore come
"tramite" soprannaturale, antenna mistica tra mondo delle storie e
carta stampata. La verità è che, come un fiume scava il proprio letto dove
trova minor resistenza, così lo scrittore, nei suoi momenti più felici, segue
la scrittura lì dove sente che essa oppone meno resistenza. Lo sente sotto i
polpastrelli, e qui l'immagine che mi viene in mente è quella del rabdomante
col bastone. Abbastanza visibile, secondo voi?
QUINTA PROPOSTA: MOLTEPLICITÀ
Questa è, tra le sei proposte di Calvino, la più
filosofica; nel senso che, allontanatosi dalla natura della letteratura, ci
mostra un po' di quella che è l'immagine che l'autore ha del mondo. Ma andiamo per
ordine. Fin da subito Calvino ci spiega che il romanzo contemporaneo, per lui,
dovrebbe essere inteso
come enciclopedia, come metodo
di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le
persone, tra le cose del mondo.
Il che ci ricorda un po' le teorizzazioni di Eco sull'opera aperta e sul processo cosiddetto di deriva ermetica, la cui caratteristica principale è per l'appunto lo slittamento da significato a significato, da somiglianza a somiglianza, da una connessione all'altra. Come esempio di questo nuovo tipo di romanzo (postmoderno senza dubbio) e di
romanziere, Calvino porta Gadda (in particolare Quer pasticciaccio brutto de
Via Merulana).
[...] la sua filosofia si presta
molto bene al mio discorso, in quanto egli vede il mondo come un "sistema
di sistemi", in cui ogni sistema singolo condiziona gli altri e ne è
condizionato.
Molteplicità, quindi, come chiave di sviluppo del
romanzo-mondo, del romanzo-enciclopedia, come potrebbero essere La ricerca del
tempo perduto di Proust o la Veglia di Finnegan di Joyce o Hyperion di DanSimmons, ma come soprattutto è la Commedia di Dante. Ma anche
romanzo-filosofia, come i lavori di Ursula Le Guin o di Philip K. Dick (ed è
così strano che sia la fantascienza a offrirci il meglio, da questo punto di
vista? Non credo: Utopia, di Tommaso Moro, è in fondo un fantasy, e fantastici
sono anche i lavori di Voltaire, di Swift e le parabole dei greci). Molteplice
può anche essere il livello di lettura di un libro - e qui viene in mente la
Bibbia, che per i protestanti ha tante possibili interpretazioni quanti sono
gli uomini che la leggono (non è impossibile: l'Architetto del libro è anche
l'Architetto di tutti i lettori) e la Commedia, che Dante stesso, nell'epistola
XIII a Cangrande della Scala, rivela avere quattro livelli d'interpretazione:
il letterale, l'allegorico, il morale e l'anagogico - nella teologia cattolica,
al contrario di quella protestante, sono anche i quattro sensi propri della
Bibbia.
Ma un momento! Non si era detto poco fa che una delle
proposte per la letteratura del nuovo millennio fosse la rapidità? Le due cose
non sono per forza in disaccordo; la rapidità può essere applicata alla
molteplicità di argomenti. Calvino stesso ne è la prova, lui, che è uno dei
teorici e capostipiti dell'iper-romanzo,
quel libro inteso sia come romanzo d'altri romanzi che atto completo di tutto
il potenziale di un romanzo (si dice che il lavoro dello
scrittore sia un lavoro di scelta; questo però non vale per l'iper-romanzo, dove la
scelta può essere abolita e tutte le opzioni esplorate, come racconta Borges ne
Il sentiero dei giardini che si biforcano). Calvino descrive l'iper-romanzo in
un certo racconto su Dumas contenuto in Ti con zero, e realizza egli stesso un
iper-romanzo quando scrive quel libro assoluto che è Se una notte d'inverno un
viaggiatore.
Le metamorfosi di Ovidio, fonte inesauribile di
storie per il lettore appassionato, con la sua pletora di miti e divagazioni e dettagli
e con uno sfondo filosofico fortemente pitagorico, è, per l'Occidente colto, il
modello assoluto del libro-molteplicità. Persino i suoi attori godono del
tratto che si chiama "molteplicità": ora Aracne è una giovane
tessitrice, ora è un ragno industrioso; ora Dafne è una bella Naiade, ora è una
pianta d'alloro. Detto questo, se pensiamo all'epoca moderna in termini di
molteplicità letteraria dobbiamo di nuovo rivolgerci a Flaubert, e a quel
romanzo enciclopedico (quel romanzo sulle enciclopedie, forse), che è il
Bouvard e Pecuchet. Questo libro parla di due copisti parigini che si ritirano
in campagna per diventare agricoltori; ma, fallito lo studio dell'agricoltura,
passano a studiare qualcos'altro: medicina, filosofia, chimica, letteratura,
psicologia, persino geologia, con tutte le sotto-categorie che possiamo
figurarci di queste materie... E noi, loro lettori, leggiamo ciò che i due
imparano. Bouvard e Pecuchet abbandonano - non possono fare a meno di
abbandonare -, alla fine della loro tragicomica traversata dello scibile umano,
lo studio, e tornano al loro primo mestiere, che è quello di copisti.
Tralasciando il significato di questo romanzo incompiuto - manca, ad esempio,
tutto il secondo volume, una vera e propria Enciclopedia delle conoscenze
trascritte dai due -, su cui generazioni di critici si sono rotti la testa, non
dobbiamo dimenticare che Flaubert, per scrivere quello che i due donchisciotti
del sapere hanno imparato, ha dovuto prima impararlo lui. Gli ultimi dieci anni
della sua vita sono stati dedicati alla ricerca e a questo romanzo: mirabile
esempio di ciò che si diceva qui, e cioè che si può parlare
solo di ciò che si conosce!
Concludo anche io come Calvino, per anticipare le
vostre obiezioni, generazione di scrittori dell'interiorità, e che sicuramente
sosterrete che
[...] più l'opera tende alla
moltiplicazione dei possibili più s'allontana da quell'unicum che è il self di chi scrive, la sincerità
interiore, la scoperta della propria verità. Al contrario, io rispondo, chi
siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d'esperienze,
d'informazioni, di letture, d'immaginazioni? Ogni vita è un'enciclopedia, una
biblioteca, un inventario d'oggetti, un campionario di stili, dove tutto può
essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili.
SESTA PROPOSTA: COMINCIARE E FINIRE
Questa proposta è sesta perché così la organizzano le
raccolte (ho in mente quella Oscar Mondadori con la copertina di Fausto Melotti,
a dire il vero; non so le altre), ma in realtà si tratta di appunti per
un'ipotetica prima lezione, o lezione introduttiva, che già Calvino elimina prima
della sua morte, e che abbiamo ricavato dalle brutte copie. Alcuni stralci
sarebbero dovuti confluire nella lezione "Consistenza", che però non
è mai stata scritta, quindi chissà. Pazienza. Prima di salutarci scopriamo cosa
può ancora insegnarci Calvino (sono ironico, naturalmente: Calvino può ancora
insegnarci tutto).
Cominciare. Lo scrittore, per scrivere, deve
cominciare a scrivere. Una massima lapalissiana. Deve semplicemente riconoscere
e dare vita a un punto di partenza. L'atto demiurgico di cui ogni scrittore è
colpevole è, se siete familiari con Aristotele, il passaggio da un'insieme di
potenzialità a un atto singolo e ben preciso. Mi spiego meglio: il foglio
bianco può racchiudere tutto il mondo, finché qualcuno non ci scrive sopra
qualcosa - e forse proprio da questo viene l'idea del romanzo-mondo, del
romanzo-universo di cui la nostra letteratura offre splendidi esempi (la
Commedia, Moby Dick, La Ricerca e, anche se non potrei definirli splendidi in
senso tradizionale, l'Ulisse e la Veglia di Finnegan). Ancora una volta ricordo
quello che abbiamo detto qui sopra: l'arte dello scrittore è essenzialmente l'arte
di scegliere.
Il punto di partenza [...] sarà
dunque questo momento decisivo per lo scrittore: il distacco dalla potenzialità
illimitata e multiforme per incontrare qualcosa che ancora non esiste ma che
potrà esistere solo accettando dei limiti e delle regole.
Rassegnatevi: non potete raccontare tutto. Non potete scrivere tutto. Non sarebbe un romanzo ma
un'enciclopedia. Calvino ci ricorda, se mai ce ne fosse bisogno, che la scelta
non avviene solo a livello contenutistico, ma anche e soprattutto a livello
formale:
Abbiamo a disposizione tutti i
linguaggi: quelli elaborati dalla letteratura, gli stili in cui si sono
espressi civiltà e individui nei vari secoli e paesi, e anche i linguaggi
elaborati dalle discipline più varie, finalizzati a raggiungere le più varie
forme di conoscenza: e noi vogliamo estrarne il linguaggio adatto a dire ciò
che vogliamo dire, il linguaggio che è ciò
che vogliamo dire.
Continua poi analizzando i vari possibili incipit di
un'opera, e la loro evoluzione nel corso del tempo: l'invocazione alla Musa, il
proemio, l'introduzione programmatica, il saluto all'universo, l'inizio in medias
res... questi sono atti particolari con cui non vi voglio ammorbare, dato
che mi sembra di aver già abusato troppo della vostra pazienza. Conclude
elencando - ma molto in breve - i tipi diversi di finale (la frase
epigrammatica, il lieto fine favolistico, la chiusa enciclopedica...). Ma col
finale Calvino si sente a disagio, e con lui, sembra, anche la maggior parte
degli scrittori. Di incipit famosi è piena la storia, ma di finali? Molti
saprebbero citarmi l'incipit di almeno cinque o sei libri, anche solo la prima
frase; ma, se mi chiedessero di citare il finale di qualche libro, mi verrebbe
in mente solo la chiusa della Commedia e quella del Chisciotte - ma del
Chisciotte non sono sicuro.
Più interessante invece è lo stralcio di testo in cui
Calvino si chiede quando si possa definire finito
un racconto:
[...] alcuni finiscono quando
ogni proseguimento non potrebbe che ripetere ciò che già è stato rappresentato,
o quando la comunicazione che volevano trasmettere ha assunto una forma
compiuta. [...] Il finale veramente importante è quello che come nell'Education sentimentale mette in
discussione tutta la narrazione, la gerarchia di valori che presiedono al
romanzo.
In piccolo, mi torna in mente una proposta di Borges,
di scrivere un romanzo giallo in cui tutti pezzi si incastrino perfettamente, e
in cui il detective acuto (e il lettore con lui) riesca a identificare il
colpevole e lo punisca; ma che, proprio nell'ultima pagina, contenga una frase
o un'allusione che faccia capire al lettore di essersi sbagliato, e lo spinga a
ricominciare daccapo la lettura per scoprire davvero chi sia il colpevole, che l'ha scampata.
Per quanto riguarda la fine di un romanzo, io stesso
non saprei dirvi quando davvero finisce, essendo il romanzo per sua natura un
segmento di qualcosa di infinito; ma mi viene in mente quello che Tom Stoppard scrisse
in Rosencrantz e Guildenstern sono morti a proposito del teatro - che cioè una
tragedia (di Shakespeare in particolare) è finita quando tutte le persone che
potevano ragionevolmente morire sono morte. E se non ne siete sicuri ripensate
all'Amleto, all'Otello o al Re Lear, per non parlare di quel bagno di sangue
che è il Tito Andronico.
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