Apologia (facile) dell'evoluzionismo

[ATTENZIONE! In questo articolo non si intende confrontare l'evoluzionismo con altre teorie meno scientifiche, come ad esempio il creazionismo. L'evoluzionismo di cui ci occuperemo riguarda il campo prettamente umano, storico ed etno-antropologico.]

La corrente evoluzionistica delle scienze umane affonda le proprie radici nelle teorie biologiche di un Lamarck e, più in particolare, di un Darwin, concernenti l'origine delle specie attraverso la selezione naturale. L'applicazione dell'evoluzionismo a campi non prettamente biologici (e anche a quelli pseudo-biologici, come quelli riguardanti le diverse "razze" umane) ha portato una serie di conseguenze a cascata che, in tempi moderni, molti teorici hanno fortemente condannato, staccandosi il più possibile dall'approccio evoluzionistico. Darwin stesso non ha mai sostenuto teorie esplicitamente razziste; tuttavia le ha autorizzate, per così dire, applicando fin da subito i suoi risultati all'esame dell'uomo (L'origine dell'uomo, 1871). Come sostiene Alberto Mario Banti (L'età contemporanea, 2009), ad esempio, tre inquietanti sviluppi sono già tutti contenuti nelle pagine finali dell'Origine dell'uomo: l'eugenetica, cioè la possibilità, attraverso un'attenta selezione sessuale, di un significativo miglioramento della specie umana; la conseguenza della lotta per l'esistenza nell'imposizione del migliore (e pensiamo cosa questo significhi per il libero mercato, o per l'imperialismo); e l'idea di un differenziale dei tempi evolutivi, per cui certe razze umane, pur non configurandosi come specie a parte, si sono evolute più rapidamente di altre. Insomma, da qui a un Joseph-Arthur de Gobineau che pubblica il Saggio sull'ineguaglianza delle razze umane (1853-55)*, o a un Francis Galton che pubblica Il genio ereditario (1869)** il passo non solo è breve, ma inevitabile.


Il problema che si accompagna all'evoluzionismo è che esso è stato, fin da subito, contaminato da quell'idea cristiana che è l'historia salutis, cioè la storia dell'umanità intesa come progresso dalla Caduta di Adamo al Regno dei Cieli prossimo venturo. L'historia salutis ha contraddistinto il substrato filosofico della civiltà occidentale - e tuttora lo contraddistingue - sostituendosi all'idea di tempo ciclico dell'antica Roma e della Grecia classica*** (non parlo qui della filosofia ionica e della medicina, che in un certo senso presuppongono sì un continuo miglioramento: parlo di Esiodo, dei pitagorici, degli accademici, degli stoici...). L'evoluzione, in questo senso, non è stata interpretata tanto come un processo di adattamento della specie quanto come un vero e proprio processo di perfezionamento spirituale, che punta verso l'assoluto. In filosofia questo approccio ha avuto come massimo esponente l'Hegel, che con un piccolo anacronismo potremmo definire filosofo evolutivo. Così il suo grande epigono, Marx, che senza Hegel non poteva esistere, interpreta la storia non tanto come un processo spirituale quanto come uno economico, e rilegge tutta l'historia salutis come il percorso, caratterizzato dalla dialettica della lotta di classe, che porta fino al messianesimo della supremazia del proletariato (materialismo dialettico). La commistione di questi tre grandi autori, Darwin Hegel e Marx, è ciò che chiameremo Evoluzionismo. L'egemonia ideologica di questa corrente, improntata alla teleologia cristiana, non si è estesa solo all'economia, alla politica e alla filosofia, ma anche alla storia e all'antropologia**** fin dal XIX secolo. 
Peter Burke definisce il modello evoluzionistico nel suo Storia e teoria sociale (1992). Burke, che si sofferma sull'evoluzionismo spenceriano, lo contrappone al modello di cambiamento marxista (evoluzione contrapposta a rivoluzione), e sembra ignorare l'importanza dei fattori esogeni; ma, con le dovute correzioni, questa definizione mi sembra quella più facilmente condivisibile all'interno delle scienze umane:
[...] Un cambiamento sociale graduale, cumulativo (opposto a "rivoluzione") e determinato dall'interno ("endogeno" contrapposto a "esogeno"). Questo processo endogeno viene spesso descritto in termini di "differenziazione strutturale", ovvero di un movimento dal semplice, l'informale e il non specializzato, al complesso, al formale e allo specializzato. Nelle parole di Spencer questo diviene uno spostamento "dall'omogeneità incoerente" "all'eterogeneità coerente". Bisogna inoltre ricordare che questo si identifica con il modello di cambiamento impiegato da Durkheim e Weber.


Pensiamo all'antropologia, per esempio. Lewis Morgan ed E.B. Tylor sono identificati come i massimi esponenti dell'evoluzionismo antropologico. Loro precursore è però Sir James Frazer, che nel suo opus magnum Il Ramo d'Oro (1890 - 1915) già propone una visione a stadi dello sviluppo, e identifica nella scienza la fase finale di un percorso che passa prima dalla credenza nella magia, e poi dalla religione. In effetti il grande difetto dell'evoluzionismo applicato alle società è questo percorso "a stadi", perché appena lo si adotta si assume che l'ultimo - di solito quello dello studioso, ed ecco una bella giustificazione all'eurocentrismo - sia il migliore, e nominando quelli precedenti li si condanna implicitamente (così fa Morgan ne La società antica, 1877, quando divide le fasi dell'evoluzione umana in selvaggia, barbara e civile!).
Insomma, abbiamo visto sommariamente cosa c'è che non va nell'evoluzionismo. Claude Rivière, in Introduzione all'antropologia (1995), sostiene che l'evoluzionismo abbia giustificato il colonialismo (e in effetti proprio il contributo civilizzatore all'evoluzione dei popoli, imposto però con le armi, è quel fardello dell'uomo bianco che Kipling cantava, e che ha fornito la base teorica e l'apologetica del colonialismo). Altri diranno, senza dubbio a ragione, che l'evoluzionismo traccia quel percorso che porta fino all'ascesa della Germania nazista, sia nella visione della supremazia dello Stato più forte, sia nel razzismo fondante della nazione. 
Queste critiche potranno essere moderate se pensiamo che non vanno applicate all'idea in sé quanto alle sue applicazioni, che infatti mi sembra l'abbiano travisata. L'evoluzionismo, nella sua forma più pura, è una teoria del cambiamento, o al più dell'adattamento alle pressioni interne ed esterne (con buona pace di Spencer e di Burke). Chi la considera una teoria del miglioramento, tale per cui su un continuum possiamo indicare diversi livelli di umanità perfettibile o perfetta, fa lo stesso errore di chi dice che l'uomo è più evoluto della scimmia, dimenticandosi che si sono entrambi evoluti da un antenato comune. Giustamente Rivière scrive:
Non vi è nella storia dell'umanità alcuna evoluzione unilineare, e ciò che conosciamo sono piuttosto forme differenti di culture dislocate nello spazio.
E ancora:
La storia umana non si traduce necessariamente in un accumularsi di successi: intricata e divergente, essa può includere anche fallimenti, degenerazioni, involuzioni. Ciascuna congiuntura è gravida di sviluppi diversi. Non è possibile attribuire i cambiamenti ad un'unica causa, poiché essi possono dipendere da effetti di propagazione, di sommovimento, di sfasamenti temporali. Talvolta può essere proprio il ritardo ad agire come stimolo per il movimento.
Benissimo. Proprio queste sono, al di là delle inevitabili semplificazioni della vulgata scolastica, proprio le premesse della teoria evoluzionistica, in particolare nella versione neodarwinista (fin troppo spesso, al di là dei suoi meriti, bollata come riduzionismo biologico). Mi corregga un biologo!
Mi sembra invece che Rivière abbia trascurato una delle critiche possibili all'evoluzionismo classico: ed è l'abitudine a considerare le civiltà come tutti unici, per cui una può essere classificata come più evoluta dell'altra; invece che come un coacervo di organi, alcuni dei quali residui antidiluviani in tutto simili all'appendice umana - almeno, così c'era scritto una volta nei libri, adesso non so cosa pensiamo dell'appendice. Insomma, parlare di civiltà evolute pare tanto più ingenuo, quando al massimo si potrebbe parlare di organi, tessuti, cellule, magari geni evoluti. Questo gli storici, al contrario degli antropologi o dei sociologi, lo sanno da sempre. Quando, ad esempio, parlano dello sviluppo artistico dell'Italia tardorinascimentale lo contrappongono alla sua arretratezza politica*****. Rivière invece spiega bene - punto ripreso da Burke - la possibilità, su cui l'evoluzionismo classico glissa, di una de-evoluzione... una volta fatto corrispondere, certo, il concetto di evoluzione con quello (peraltro difficilmente definibile) di modernizzazione. Scrive Burke:
L'esempio regressivo meglio conosciuto dagli storici è quello dell'Europa al tempo del declino dell'impero romano e delle invasioni "barbariche" [...]. La crisi strutturale dell'impero romano del III secolo è stata seguita dal crollo del governo centrale, dal declino delle città e dalla sempre maggiore autonomia della periferia, sia a livello politico sia economico. I Longobardi, i Visigoti e gli altri invasori hanno potuto vivere secondo le loro leggi, impersonando uno spostamento "dall'universalismo" al "particolarismo". [...] Allo stesso tempo il cristianesimo [...] assumeva una sempre più pesante influenza politica, culturale e anche economica, a spese di alcune attività secolari.

***

Dobbiamo buttare via l'evoluzionismo? Direi di no, anche se senza dubbio dovremmo buttarne via questa forma antidiluviana. Marc Bloch, nella sua bellissima Apologia della storia (1949), scritta in un periodo in cui, nonostante la politica tedesca, le teorie evoluzionistiche non avevano ancora subito critiche tanto spietate, dice, discutendo le criticità del cosiddetto "problema delle origini"******:
Come troppo di frequente avviene - poiché niente è più difficile che stabilire fra i diversi ordini di conoscenza una esatta simultaneità - le scienze dell'uomo, qui, ritardarono rispetto alle scienze della natura. Infatti queste erano già dominate, verso la metà del secolo XIX, dall'evoluzionismo biologico, che suppone [...] un allontanamento progressivo dalle forme ancestrali e, a ogni tappa, lo spiega con le condizioni di vita o di ambiente tipiche del periodo.
L'evoluzionismo, col suo accento sul ruolo dell'ambiente nell'emergere di cambiamenti nelle specie (si legga nelle società, o negli individui), e la continua dialettica tra questi cambiamenti, l'ambiente e la specie stessa, è un paradigma che a distanza di più di due secoli mantiene intatta la sua forza, come dimostra peraltro la scienza nuova dell'antropogeografia. A ben vedere esso non è mai stato negato, né potrà essere negato a meno di un'imponente semplificazione metodologica, se non nelle aule scolastiche, o nella retorica dei professori. Ciò che abbiamo acquisito con l'evoluzionismo, eliminate le interpretazioni spurie del cristianesimo e cambiatone il nome, è un'imprescindibile pietra angolare - certo non l'unica - di tutte le scienze umane. Come il paradigma funzionalista, passato da unico possibile nelle scienze storiche e antropologiche (sebbene come al solito le storiche lo abbiano adottato quando in antropologia e sociologia stava tramontando, negli anni '60) a semplice strumento descrittivo nelle mani di studiosi altrimenti formati, continua a far sentire la propria influenza sotterranea. 



_____
*In cui l'autore sostiene l'esistenza di tre razze, la bianca, la nera e la gialla(!), e la decadenza della prima, indiscutibilmente la superiore, dovuta a esperienze di meticciato.
**Che propone la teoria che le differenze tra le "razze" non siano determinate dall'influenza ambientale ma dal corredo genetico, aprendo definitivamente la strada all'eugenetica e al mito dell'ariano.
***Con tutte le possibili eccezioni dovute al diffondersi dei riti misterici, che in un certo senso preparano il terreno all'avvento del cristianesimo. Ma non vorrei interpretare fenomeni già pregni alla luce dei loro conseguenti.
****Cosa poi l'evoluzionismo sia per la psicologia parlerò forse in futuro.
*****La formula è tendenziosa, e assume la forma dello Stato-nazione come "più evoluta" politicamente. Ma da quello che si è detto si capirà che è una formula vuota.
******L'ossessione degli storici del suo tempo, in ogni avvenimento, della ricerca degli inizi e delle cause.

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