La malinconia della rosa

In queste settimane la Rai sta trasmettendo Il Nome della Rosa, serie televisiva tratta dall'omonimo romanzo di Eco in cui John Turturro veste i panni di Guglielmo da Baskerville e un'ormai irriconoscibile Rupert Everett quelli di Bernardo Gui (o Guidone, o Guidonis, secondo la dicitura più diffusa). Ora, io ho letto Il Nome della Rosa due volte, la prima per piacere e la seconda per studio; e ho dato un esame che, poco ci mancava, verteva tutto su questo libro. Mi piace, mi piace molto, ma tutte le volte che penso alla trama mi assale una profonda malinconia. Perché Il Nome della Rosa è un romanzo che ha per trama un fallimento, nel senso che parla dell'impossibilità di un uomo, per quanto egli possa essere intelligente come Guglielmo, di comprendere completamente il mondo attorno a lui. Forse mi sta tanto a cuore questa particolare linea narrativa, tra le tante, perché come direbbe quella santa donna della mia psicologa ci proietto dentro le mie paure.
Naturalmente da qui in poi (ma a ben vedere, anche da qui andando a ritroso, nelle scorse righe), ci saranno - chiamiamoli così - degli spoiler. Spoiler su un libro pubblicato ormai quasi quarant'anni fa, e che è una delle pietre miliari della letteratura italiana del secondo novecento, ma tant'è, ci sarà anche chi s'avvicina alla serie televisiva da vergine. Occhio quindi. Lettore avvisato mezzo salvato.


Perché dico che Il Nome della Rosa parla di un fallimento? Non è forse vero che Guglielmo alla fine penetra i segreti della biblioteca, scopre il movente e il modo degli assassinii, e infine intuisce persino chi sia l'omicida, il venerabile e cieco Jorge da Burgos (ben misero tributo al buon Borges, che non avrebbe torto un capello a un cane, dargli la parte del maniaco invasato)? Sì, ma per sua stessa ammissione tutto questo gli capita non dico per caso ma quasi, molte cose gli diventano chiare solo dopo aver parlato con Jorge, e insomma si rende conto di aver trovato una trama là dove non c'era, e trovandola l'aveva creata, e più che capirle tutte quelle cose le aveva indovinate. Tant'è che non solo non riesce a salvare Abbone, né a consegnare alla giustizia Jorge, e neppure a vincere la disputatio con Bernardo; non riesce neppure a preservare la biblioteca, cuore del sapere d'Europa, come a dire di tutto il mondo che conta (per i personaggi), che pure fino all'ultimo non era mai stata in pericolo!

Del resto, il fallimento di Guglielmo è implicito nel titolo del romanzo. Stat rosa pristina nomine, scrive Johan Huizinga, probabilmente con un piccolo refuso (l'originale di Bernardo di Cluny parlava di Roma, non di Rosa), nel suo Autunno del Medioevo. Stat rosa pristina nomine, nuda nomina tenemus. Un passo che si può interpretare in molti modi, e tira facilmente in ballo l'opposizione tra platonici e aristotelici sugli individuali e gli universali, ma che per la trattazione del nostro articolo riguarda il fatto che, più delle cose (la rosa primordiale, la rosa dell'origine, la rosa in quanto Cosa-in-sé), noi abbiamo solo i nomi delle cose, vale a dire le immagini mentali delle cose, e solo su di essi possiamo ragionare. Già Gugliemo da Ockham, da cui il nostro Baskerville mutua il nome (e l'altro personaggio omaggiato dal suo nome è letterario e non filosofico, e naturalmente parlo di Sherlock Holmes) scrisse che le scienze reali non si occupano delle cose, ma di proposizioni sulle cose, perché le cose purtroppo esistono fuori dal pensiero, e noi ragioniamo col pensiero. Sembra una fregnaccia che anche il mio vicino di casa, e invece è terribile, perché significa, a ben pensarci, che noi quando pensiamo pensiamo male. Cerchiamo significato nei segni che ci sono nella nostra mente, che sono solo ombre dei segni fuori dalla nostra mente (qui il riferimento è ai processi semiotici, a cui Umberto Eco dedica gran parte dei suoi contributi nel campo della filosofia). La logica, poi, la mia bella e cara logica, si occupa solo di regolare schemi mentali che stanno per altri schemi mentali, neanche per le cose reali. Per forza Guglielmo da Baskerville fallisce: per forza anche noi alla fine dei conti siamo destinati a fallire. Il significato che traiamo dalle cose, mettiamo gli omicidi, riguarda le cose, ma non è le cose; e spesso l'ansia di trovare significati ci inganna, come ha ingannato Baskerville. Le regole della nostra mente non sono quelle della natura. 
Del resto i due Guglielmo hanno uno scudo a questa tentazione, cioè quella di cercare una linea ininterrotta di cause ed effetti, per cui anche partendo dall'effetto (l'omicidio) si può risalire alla causa, e questo scudo (che hanno loro ma noi non più) è la teologia. Una cosa su cui naturalmente Sherlock Holmes non poteva contare, nel suo clima positivista. Del resto Conan Doyle non era un buon filosofo, prova ne è che ha sempre confuso la deduzione con l'abduzione - e va bene che di abduzione parla Pierce, ma già in Aristotele qualcosa su cui riflettere c'era. 

Ciò che noi chiameremmo casualità, che interviene e confonde le carte, Guglielmo da Baskerville la chiama con un termine non meno ingenuo che è Dio. Infatti affermare l'universalità del principio di causalità significa imbrigliare la potenza divina. Dice saggiamente Guglielmo:
Capisci Adso, io devo credere che la mia proposizione funzioni, perché l'ho appreso in base all'esperienza, ma per crederlo dovrei supporre che vi siano leggi universali, eppure non posso parlarne, perché lo stesso concetto che esistano leggi universali, e un ordine dato delle cose, implicherebbe che Dio ne fosse prigioniero, mentre Dio è cosa così assolutamente libera che, se volesse, e di un solo atto della sua volontà, il mondo sarebbe altrimenti.
E ancora:
È difficile accettare l'idea che non vi può essere un ordine nell'universo, perché offenderebbe la libera volontà di Dio e la sua onnipotenza. Così la libertà di Dio è la nostra condanna, o almeno la condanna della nostra superbia.
Eppure questo buon precetto Guglielmo lo dimentica, e ciò che ne segue l'abbiamo già detto, e si chiama fallimento. 
Insomma, non se ne esce, e districare i giusti significati da quel coarcevo di universi che si chiama "il mondo" è compito superiore anche a chi della ricerca di significati ha fatto il suo mestiere. Al massimo possiamo indovinare qualcosa, e capire qualcos'altro a patto che ci concentriamo su piccole porzioni del mondo (sì, Gugliemo capisce tutto del cavallo Brunello, e quella ci viene offerta come la sua vittoria più importante. Allo stesso modo, la nostra può essere solo una cultura specialista. Nessuno è un tuttologo).


"Non v'era una trama" dice Guglielmo ormai sconfitto, con un paradosso che non manca mai di gelarmi il sangue. "Non v'era una trama e io l'ho scoperta per sbaglio". La figura di quest'uomo intelligentissimo e dottissimo, che fallisce ogni cosa o quasi ogni cosa, e che muore poi fuori scena, oscenamente, anni dopo i fatti dell'abbazia, durante una pestilenza, mi dà il magone. Non so a voi. La tragedia di questo libro tristissimo, anche se scritto in maniera felicissima, è contenuta tutta nell'ultima lezione che il maestro dà al suo giovane allievo Adso - che, come si vedrà, manca del suo talento, della sua curiosità, e sopratutto dei suoi dubbi, e che ben presto si allontana dall'ombra del suo esempio per cadere sotto quella manichea di Ubertino da Casale.
Non ho mai dubitato della verità dei segni, Adso, sono la sola cosa di cui l'uomo dispone per orientarsi nel mondo. Ciò che io non ho capito è stata la relazione tra i segni. Sono arrivato a Jorge attraverso uno schema apocalittico che sembrava reggere tutti i delitti, eppure era casuale. Sono arrivato a Jorge cercando un autore di tutti i crimini e abbiamo scoperto che ogni crimine aveva in fondo un autore diverso, oppure nessuno. Sono arrivato a Jorge inseguendo il disegno di una mente perversa e raziocinante, e non v'era alcun disegno, ovvero Jorge stesso era stato sopraffatto dal proprio disegno iniziale e dopo era iniziata una catena di cause, e di concause, e di cause in contraddizione tra loro, che avevano proceduto per conto proprio, creando relazioni che non dipendevano da alcun disegno. Dove sta tutta la mia saggezza? Mi sono comportato da ostinato, inseguendo una parvenza di ordine, quando dovevo sapere bene che non vi è un ordine nell'universo.
Con ciò, tra parentesi, si mette un punto anche a tanta letteratura gialla, che è la letteratura più filosofica di tutte, perché il suo compito è risolvere misteri, e di misteri qui nessuno riesce a capirne nulla, se non sono proprio elementari*.
Non so cosa succederà nella serie televisiva, se riusciranno a trasmettere questo senso di sconfitta (spero sia così), o se opteranno per un protagonista che trionfa. Ma a prescindere da questo, Il Nome della Rosa rimarrà sempre il libro che mi suscita più malinconia. Anche di questo romanzo, nella memoria, ci rimane solo il nome.


DISCLAIMER: Sia chiaro, la posizione di Eco filosofo e semiologo non era - né poteva essere - quella di uno scetticismo universale e insalvabile. Per saperne di più, rimando prima di tutto ai suoi saggi, e poi al volume di Claudio Paolucci, Umberto Eco: Tra ordine e avventura.

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*Anni fa organizzai, per il compleanno di un mio compagno di teatro, una "cena con delitto". La soluzione era complessa, nel senso che era semplice: tutti gli omicidi avvenuti quella sera erano o suicidi, o incidenti, o opera di persone diverse. La vita, commentavo, è caotica, non come l'arte, che è ordinata. Nessuno risolse i miei indizi, perché cercavano tutti un solo omicida. Insomma, fu un disastro e me ne pento, perché si era lì per giocare e non per indagare un mio personale senso del mondo. Lessi Il Nome della Rosa due o tre anni dopo, e forse anche per via di questo involontario parallelo mi ci affezionai tanto.

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