Tre racconti da mio nonno

In questi giorni mi tornano alla mente i cari che mi hanno lasciato. Mio nonno morì quando ero relativamente piccolo, e credo di aver elaborato il lutto solo molti anni dopo, quando la sua immagine, non chiamata, mi balenò davanti e io scoppiai a piangere senza un preciso motivo. 
Mio nonno si chiamava Giuseppe. Mi faceva mangiare le carote crude appena tirate su dall'orto. Faceva con me delle gare di corsa nel giardino, che mi divertivano tanto. Non mi sembra abbia mai alzato la voce con me. Era un gran taccagno, e per risparmiare due soldi d'acqua non lavava i bicchieri dopo averli usati. Quando andavo a casa sua, glieli lavavo io di nascosto. Aveva dei conigli, ma non per compagnia, per mangiarseli: stipati in una gabbia costruita da lui (era anche, tra le altre cose, un pessimo falegname), li ammazzava tirandogli il collo, li scuoiava e li appendeva al soffitto in cantina, sopra un secchio, in modo che si dissanguassero. Metteva uno sgabello, anche quello costruito da lui, di fronte al coniglio scuoiato, e noi suoi nipoti ci sedevamo a guardare il sangue rosso che gocciolava da quel muso irriconoscibile. Nessuno si stupirà che ho conservato ricordi abbastanza vividi di quei momenti.
Volevo bene a mio nonno. Non sono mai stato un grande fan di mia nonna, perché aveva l'alito cattivo, e da piccolo cercavo di starle lontano; ma adoravo mio nonno.

Giuseppe, come tutti i nonni, raccontava un sacco di storie. Dio solo sa quante e quali fossero vere...! Io le conoscevo tutte a memoria, ma facevo finta di no, così lui poteva raccontarmele di nuovo, e rivivere così i giorni beati (e quelli orribili, ma che nel ricordo scolorano e diventano comunque beati) della sua gioventù lontana. 

Ad esempio, aveva un sacco di storie di guerra. Una di quelle che mi raccontava più spesso era la storia dell'eccidio di Cefalonia. A Celafonia era stanziata una guarnigione di soldati italiani, tra cui i commilitoni di mio nonno. Tutto il suo... reggimento? Plotone? vai a saperlo, comunque tutti i suoi compagni erano stati mandati a Cefalonia. Anche lui avrebbe dovuto partire, ma alla fine i suoi superiori lo fermarono: aveva i gradi, doveva fermarsi a Brescia e addestrare le reclute di cui l'esercito italiano aveva un disperato bisogno. 
Dopo l'armistizio con gli Alleati, i tedeschi attaccarono molte guarnigioni italiane, tra cui quella di Cefalonia. Tra lo scontro, le esecuzioni, e gli incidenti avvenuti durante la deportazione, nessuno dei commilitoni di mio nonno sopravvisse. Penso spesso a questa storia: se mio nonno fosse andato a Cefalonia, come era probabile che facesse, io non sarei mai nato. Ma mi consolo, pensando che forse questo sarebbe stato vero anche se fosse andato e tornato vivo, o se la sera del concepimento di mia mamma fosse andato a letto cinque minuti dopo: ogni minima variazione dal tracciato può alterare irrimediabilmente il presente. Quindi non vale la pena pensarci.

Non ho storie di partigiani e resistenza, nella mia famiglia. Sono un po' invidioso di chi ne ha. Mio nonno, ad esempio, sinistrorso come sono, non ho mai avuto il coraggio di chiedergli se credesse nel fascismo. Ma non ne aveva l'aspetto. Mio nonno faceva parte di quella massa di persone gentili, gran lavoratori, che pensano solo al proprio orto e a quello del proprio vicino, ma che mancano della fantasia o dell'istruzione necessaria per avere un quadro più ampio della situazione. Se fu fascista, lo fu per mancanza d'alternative. Dopodiché, in famiglia abbiamo sempre votato sinistra.
Tuttavia anche lui ebbe a soffrire dai fascisti e dai tedeschi. Membro del Regio Esercito ai tempi dell'armistizio, rifiutatosi, chissà perché, di passare dalla parte dei repubblichini (mio nonno ebbe sempre una sorta di infatuazione per i monarchi, ma non escludo una presa di posizione più netta), venne deportato in un campo di prigionia. Lui, che aveva sempre fatto il contadino, diceva, con una generalizzazione forse imperdonabile, che era un "campo di concentramento". In realtà in un campo di prigionia si era trattati con tutti i riguardi compatibili con lo stato di nemici catturati e messi ai lavori forzati, che, per carità, non erano molti, ma c'erano. 
Ecco un'altra storia che mio nonno mi raccontava. Mentre era prigioniero dei tedeschi, era obbligato a lavorare in una fabbrica di zucchero. E, dato che i suoi secondini erano parchi col vitto, e lui e i suoi compagni sentivano spesso il morso della fame, quando potevano si riempivano le tasche di zucchero, di cui poi si rimpinzavano nei dormitori. A mio nonno rimase il gusto dello zucchero e del rubarlo; e infatti, quando ero piccolo, me ne dava di nascosto dai miei genitori, a cucchiaiate. Col che inconsapevolmente mi avvicinava a sviluppare una qualche forma orribile di diabete. Ma lo perdono.

Il terzo racconto risale, tanto per cambiare, a dopo la fine della guerra. Fu quella volta che mio nonno fece la comparsa, credo a Cinecittà, e Dio solo sa cosa ci facesse a Roma, lui che era un polentone fatto e finito. Partecipò a non so più che film su Annibale che varca le Alpi (Scipione l'Africano, forse? Ma Scipione l'Africano venne girato prima della guerra. Potrebbe allora essere che sia io a sbagliarmi, con la cronologia degli eventi). Dato che sapeva cavalcare, gli dettero una giumenta e lo resero cavaliere. Equites, mio nonno! La nostra famiglia, ai tempi dell'antica Roma, sarebbe stata al massimo un covo di pauperes.
Lui amava quella giumenta. Ogni volta che me ne parlava, gli occhi gli brillavano. Lo ricordo bene. Faceva schioccare la lingua per produrre il suono dei suo zoccoli sull'acciottolato. Purtroppo, per quanto mi sforzi, non riesco a ricordarmi come si chiamava. Ho provato a chiedere a mia madre, a cui  il nonno deve aver raccontato questa stessa storia il doppio delle volte che l'ha raccontata a me, ma neanche lei si ricorda. Aveva un suono che era come "Itaca", ma non era Itaca. 
Mi sento triste quando penso che il nome di quel cavallo è perso per sempre, scomparso insieme all'ultimo uomo che l'aveva amata.

Queste, dunque, sono le storie che mio nonno mi raccontava. Ora le ho raccontate a voi. Ce ne sono altre, come quella volta che il Re gli appuntò una medaglia al petto per non so più che cosa e gli dette un premio di una manciata di lire, che però all'epoca valevano un capitale. Ce ne sono altre ancora che ho dimenticato, o che forse non ha mai raccontato a me ma a qualcun altro dei suoi nipoti, o a una delle sue figlie. Non lo so. Di lui ora ho solo i ricordi; e le storie, che, da un certo punto di vista, sono dei ricordi presi a prestito. Stat rosa pristina nomine: nuda nomina tenemus.

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