L'albero della spada


Lancillotto estrasse Gioiosa e se la fece mulinare sopra la testa. Il suo luogotenente urlò e i suoi uomini gli risposero. Uscirono dai loro nascondigli e corsero verso di lui, si divisero in due rami per non travolgerlo, lo sorpassarono e si ricompattarono davanti a lui. Erano tutti celti e romani dell’Armorica, nudi o mezzi nudi, qualcuno con una lorica arrugginita addosso, che avevano attraversato la Manica per combattere al fianco di Artù. Continuarono a correre finché non si scontrarono coi loro nemici, un gruppo di sassoni e Juti con armature fatte di ossa di balena, mazze ed asce, e grossi scudi di legno e cuoio. Le prime linee degli schieramenti si scontrarono ma non si intralciarono; gli uomini sollevavano le armi contro chiunque capitasse loro a tiro, e colpivano e affondavano e uccidevano quanti più ne potevano. Chi si allontanava troppo dai compagni, penetrando nelle fila nemiche, era subito circondato e ucciso.

All'inizio l’effetto sorpresa giocò in loro favore. Ma Lancillotto sapeva che la loro fortuna non sarebbe potuta durare ancora a lungo. I suoi uomini erano agricoltori, pastori, vasai, fabbri rubati al lavoro, addestrati sommariamente nelle fortezze di Logris e gettati in battaglia; ma i sassoni erano guerrieri fino all'ultimo ed erano lì per combattere.
All’improvviso, in mezzo allo scontro, vide un gigante scagliare un’accetta contro il suo luogotenente. La traiettoria era precisa, il tiro pulito: il suo cranio si spaccò a metà col suono di una tazza di legno che cade a terra ed egli cadde e si agitò ancora un po' prima di rimanere immobile. Lancillotto non perse tempo e caricò il gigante; quello si palleggiò tra le mani un’altra accetta, prese la mira e gliela lanciò contro, ma Lancillotto si gettò a terra e quella si conficcò in un tronco di quercia dietro di lui. Poi rotolò, si ritrovò in piedi e riprese a correre; il sassone raccolse una clava e con quella cercò di parare il colpo del cavaliere, che ormai gli era sotto; ma Lancillotto frenò, approfittò del fatto che il suo nemico fosse sbilanciato dalla parata e, con un calcio ben piazzato, lo fece ruzzolare a terra. Mentre stava ancora cercando di rialzarsi, gli ficcò l’acciaio temprato di Gioiosa in bocca, in modo che spuntasse dall’altra parte e si conficcasse nel terreno. Mise un piede sul suo torace, fece forza e riuscì a sfilare la spada; la ripulì del sangue e della materia cerebrale sulla lama, si voltò e passò ad affrontare un altro nemico.


Vide un sassone davanti a lui calare un’ascia e staccare la mano a uno dei suoi uomini, un piccolo Gallo che scappò via urlando. Lancillotto corse verso di lui, saltò contro il tronco di un albero e ruotò Gioiosa, poi cadde a terra, rotolò e si rimise dritto. Si girò subito, ma il sassone era steso per terra, con la testa mozzata che scivolava sul tappeto di foglie marce e lo guardava con un'aria stupita. Un terzo sassone, viste tutte queste cose, lo caricò tenendo le braccia sollevate, in modo da calare l’ascia, quando lui fosse arrivato a tiro, con tutta la forza possibile; ma a Lancillotto bastò saltare in avanti e tendere Gioiosa perché il sassone, che ormai non poteva più frenare, vi si conficcasse sopra. Emise un gemito, strabuzzò gli occhi, ruotò e cadde a terra, strappando la spada dalla mano di Lancillotto e portandosela con sé, nascosta sotto il suo ventre.
Lancillotto non aveva tempo per recuperarla. Estrasse la piccola daga, si curvò e, pronto a combattere, si guardò attorno. Ma la prima linea dei suoi uomini l’aveva ormai superato e i sassoni erano in rotta. Aveva vinto.

In seguito seppe che era bastato che i nemici riconoscessero lui e la sua spada perché si sentissero perduti. Adesso l’esercito di Artù non doveva più temere che lo accerchiassero.
Lancillotto era soddisfatto, perché una volta ancora aveva salvato il re.

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