Kohlberg e la morale del taglione

Lawrence Kohlberg, nei suoi lavori, descrive uno sviluppo della moralità di tipo sequenziale. La moralità, cioè, non è qualcosa di innato, ma di acquisito passo dopo passo. Gli stadi della moralità, sempre secondo Kohlberg, sono indicativamente sei, con tutte le sfumature del genere; e non è detto che un adulto abbia raggiunto quello più alto.

Stadio
Comportamento
MORALITÀ PRECONVENZIONALE (sotto i 10 anni)
STADIO 1 - Orientamento premio-punizione
Obbedienza alle regole al fine di evitare la punizione. Disinteresse per i punti di vista diversi dal proprio.
STADIO 2 - Orientamento individualistico-strumentale
Le regole sono rispettate quando è nell'interesse immediato del bambino. Ogni azione è giudicata in base al soddisfacimento dei bisogni del bambino.
MORALITÀ CONVENZIONALE (fino ai 20 anni)
STADIO 3 - Orientamento comunitario e sociale
Conformità alle regole per rispondere alle aspettative positive della comunità ed evitarne la disapprovazione.
STADIO 4 - Orientamento al mantenimento dell'ordine sociale
Conformità alle regole del sistema di appartenenza. Le leggi vanno rispettate perché garantiscono l'ordine sociale.
MORALITÀ POST-CONVENZIONALE
STADIO 5 - Orientamento al contratto sociale
L'azione corretta è determinata dai modelli accettati dalla società di appartenenza, ma le leggi non hanno valore assoluto. I valori vengono ora considerati in maniera relativistica.
STADIO 6 - Principi universali
Conformità a dei principi individuali per evitare l'autocondanna piuttosto che una punizione esterna. I principi etici a cui si aderisce, se entrano in contrasto con la legislazione del sistema, vengono prima di tutto.
Fonti per la tabella: qui, qui e qui.


Socrate is watching you
Il passaggio da una moralità preconvenzionale a una post-convenzionale è il passaggio da una moralità di tipo imperativo ipotetico a una di tipo imperativo categorico: "faccio una cosa perché mi serve" rispetto a "faccio una cosa perché è la cosa giusta" (vedremo tra un attimo che questa è una distinzione orientativa, ma per ora dovrà bastarci). Lo stadio dei principi universali è uno stadio indipendente dalle contingenze del mondo: io agisco in un modo perché credo sia giusto farlo. Non cambierò idea in base agli accidenti della mia vita: Socrate, che beve la cicuta perché condannato a farlo, si piega all'ubbidienza delle leggi di Atene perché crede che in questo risieda la giustizia, indipendentemente dall'effetto che l'azione avrà su di lui. Nel Critone c'è uno scambio di battute che, credo, condensa bene il suo pensiero: "[...] Tu quindi non compi un buon ragionamento quando affermi che dobbiamo preoccuparci del parere delle persone su quello che è bello o buono, e viceversa. È vero che qualcuno potrebbe obiettare che le persone possono ucciderci [...] l'importante non è vivere, ma vivere rettamente".

Gli uomini che raggiungono un livello tanto alto di moralità (e che, sia chiaro, non per questo sono migliori degli altri), diciamo una moralità di tipo post-convenzionale, una moralità come quella di Socrate, di Gesù o di Gandhi, sanno bene, ad esempio, che due torti non fanno una ragione. Che due ingiustizie non fanno una giustizia. Che dire, all'italiana, "Rubano tutti, rubo anche io" non solo è sbagliato, ma anche infantile. Albert Bandura, un altro psicologo che ha lavorato nello stesso campo, parlerebbe in questo caso di una strategia di disimpegno morale, il "confronto vantaggioso" - gli altri fanno peggio - la "diffusione di responsabilità" - l'ho fatto io ma l'hanno fatto anche loro - o l'"attribuzione della colpa" - ha iniziato lui.
Insomma, l'errore di un altro non giustifica il nostro. La vendetta, la Legge del Taglione "Occhio per occhio, dente per dente", può essere alternativamente ritenuta un principio etico (cosa che noi ci guardiamo bene dal fare) o un'applicazione della fallacia logica di cui vi abbiamo appena parlato.
Altri esempi abbastanza comuni dello stesso errore:
  1. guardando al TG i barconi soccorsi dalla Guardia Costiera e i migranti ospiti nei Centri d'Accoglienza, dire "Volevo vedere se andavamo noi a casa loro se ci trattavano così".
  2. dire "Chi ruba, al loro Paese gli tagliano le mani" col desiderio che si torni a una legislazione non basata sul risarcimento alla società e alla riabilitazione, ma sul puro desiderio di punizione.
Credere, quindi, di essere giustificati a commettere un atto disumano perché, da qualche parte, nel mondo qualcuno sta commettendo un'altra ingiustizia, rivela forse un blocco a uno stadio morale più basso del post-convenzionale.

Lawrence Kohlberg
KOHLBERG E MAI PIÙ KOHLBERG
Le conclusioni di Kohlberg sono state criticate molto e a lungo, in particolare da una sua allieva, Carol Gilligan, che gli rinfacciava di aver usato, per svolgere le sue ricerche, un campione di soggetti solo maschile. La Gilligan scoprì in seguito che nelle donne l'interesse per la giustizia è affiancato (non soppiantato) da una spinta alla cura e alla mitigazione dei giudizi; ma questo non mi pare infici il nostro ragionamento.  

CONCLUSIONI E SPERANZE
Naturalmente non mi aspetto di aver dato, con questo articolo, un qualsiasi apporto al problema della filosofia della morale. Quello che spero, piuttosto, è che sia riuscito a persuadere qualcuno che il fatto che qualcun altro compia un'ingiustizia non gli fornisca una scusa per compiere un'azione a sua volta ingiusta.

UN ESEMPIO DI SVILUPPO MORALE: IL CROCIFISSO NELLE NOSTRE AULE
Arrivati a questo punto, piuttosto che sfruttare un esempio chiaro, quello relativo al rispetto della vita umana a prescindere dall'etnia, che nessuno potrebbe contestare senza contestare il valore stesso della vita, preferisco proporne uno più sfumato, uno su cui sia possibile intavolare un dialogo. 
È giusto o non è giusto esporre il crocifisso nei luoghi pubblici? Io, per convinzione personale, credo sia ingiusto; ma in questo frangente le convinzioni personali lasciano il tempo che trovano. In questo articolo stiamo parlando dello sviluppo morale così com'è proposto da Kohlberg, delle giustificazioni morali di Bandura e di nient'altro; il crocifisso ci servirà solo da esempio per spiegare il nostro pensiero.
L'Italia è uno Stato laico, che prevede quindi una scissione tra gli organi di governo e quelli religiosi. Credo che molte persone siano, a ben ragione, contente di questo fatto; ma ecco alcune di queste mostrarsi subito in disaccordo quando si parla di rimuovere le croci dalle aule scolastiche[1]. In certi casi questo avviene perché, alle loro orecchie, non pare che lo si faccia per perseguire un principio etico purtroppo non ancora legale[2] a cui in generale aderiscono; ma che si faccia solo per cullare gli "stranieri" (inglobando indifferentemente in questo termine migranti di prima e seconda generazione, così come cittadini italiani con origine straniere e italiani di solide radici non cristiani).
Purtroppo non è, questo blog, il luogo più adatto per chiederci perché questa convinzione sia tanto diffusa, fomentata e sfruttata com'è da politici senza scrupoli che sanno che appellarsi alla paura dell'uomo è più facile che non appellarsi al suo senso di giustizia. La cosa che ci interessa, invece, e che riguarda, per ora, uno dei meccanismi di giustificazione adottati, è che a parlare di laicità e di uguaglianza delle religioni è facile sentirsi rispondere "Volevo vedere se andavamo noi a casa loro, se toglievano i loro simboli di fede".
A parte il fatto, che spesso sfugge, che la croce non è assolutamente il simbolo di fede del nostro Stato, dato che il nostro Stato non ha alcuna fede; qui vediamo come si torni sempre alla convinzione che, se da qualche parte nel mondo c'è un'ingiustizia, noi come persone siamo giustificati a compiere un'altra ingiustizia. In particolare, se uno Stato straniero che adotta la Shari'a come legge assoluta sbaglia, allora noi siamo giustificati a imporre la "nostra" religione - si legga, la religione più diffusa - a tutte le minoranze confessionali all'interno dei nostri confini.

Crocifisso della Chiesa di Santo Stefano in Pane,
scuola di Giotto
Un altro ragionamento dei difensori del crocifisso, che andrebbe in questo caso inteso come un simbolo identitario europeo, riguarda invece la paura di perdere la nostra identità in favore di quella, forse più forte, dei nostri concittadini musulmani. È un tipo di ragionamento che valuta le conseguenze di un'azione, una giustizia di tipo strumentale. Sia chiaro: questa non la rende sbagliata a priori. Un principio etico assoluto è che la guerra sia sbagliata; tuttavia, combattere per la propria libertà o per la propria vita, così come per quella di altri esseri umani, è un'azione strumentale che rivendica valori assoluti.
Nel caso del crocifisso parliamo quindi di un arroccamento sulle tradizioni per evitare la contaminazione con una cultura aliena, una cultura forse sanguinaria e che, come vediamo ogni giorno, rinnega quelle stesse libertà e quei diritti fondamentali che noi qui diamo per scontati (parlo della cultura violenta dello Stato Islamico, non di quella più moderata di un musulmano - o di qualsiasi altro religioso - non integralista).
Penso che sia proprio qui che si annidi l'errore: ritenere che l'unica cosa in grado di fermare la barbarie di uno Stato che assume come unico diritto il diritto divino, immutabile e disumano, sia appellarsi a un altro tipo di diritto divino. Un'applicazione ingiusta dei principi di una religione usata per battere un'applicazione ingiusta dei principi di un'altra regione. Imporre a tutti i simboli di una fede che non è universale (parlo da italiano e da ateo) si configura così come una reazione che, in fondo, non fa che legittimare l'azione di quel macellaio al di là del mare che uccide in nome della sua fede.
La nostra unica via d'uscita da questa guerra di religioni è la sostituzione della morale religiosa con una morale indipendente - che può come non può coincidere con quella religiosa, ma che senza dubbio non si nasconde dietro di essa, e che non si picca di difenderne i simboli anche quando è ingiusto. Personalmente credo che sia la civiltà a doversi contrapporre alla barbarie; la giustizia all'ingiustizia; la morale al cieco appellarsi di tradizioni e Scritture. Da questo discorso il cristianesimo, se non come filosofia, dovrebbe essere escluso.

DISCLAIMER: È ovvio che i due proposti non sono gli unici ragionamenti in favore del mantenimento del crocifisso negli uffici pubblici. Il parere espresso dal Consiglio di Stato (numero 63 del 27 aprile 1988) sembra anzi scindere profondamente il crocifisso nelle aule dal suo significato religioso, e farne invece un simbolo universale. Noi abbiamo preso in considerazione solo i ragionamenti che ci sembravano attinenti al nostro articolo, in cui la querelle sulla laicità dello Stato è un esempio.





[1] Parlo di scuole pubbliche, naturalmente.
[2] L'art. 118 del R.D. 30 aprile 1924 n° 965 e il R.D. 26 aprile 1928 n° 1297 prescrivono l'uso del crocifisso nelle scuole medie ed elementari. Questi articoli non sono mai stati modificati. Benissimo, dico io: allora esponiamo anche tutti gli altri simboli religiosi, nella speranza di realizzare quell'uguaglianza tra religioni di cui parla l'Articolo 8 della nostra Costituzione.

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