L'autore di Waverly è lieto di presentarvi: Ivanhoe

Romanzo storico, in Italia conosciuto soprattutto come romanzo per ragazzi, Ivanhoe è uno splendido libro di Walter Scott - già autore di Waverly, naturalmente - che è utile analizzare, seppur brevemente, perché ci favorisce alcuni pensieri più generali sulla scrittura. Inizierò togliendomi il dente del parere personale: a me è piaciuto, ed è piaciuto molto. Mi ha tenuto compagnia durante parecchi piacevoli pomeriggi. Le avventure dei suoi personaggi mi hanno enormemente interessato, i loro caratteri affascinato, la scrittura, per quanto forse oggi potremmo considerarla un poco datata, mi ha ipnotizzato. Lo consiglio di tutto cuore, benché la mia edizione (La biblioteca dei ragazzi - Crescere Edizioni) fosse strabordante di refusi, una cosa mai vista.


ATTENZIONE! Quella che segue è un'analisi che presuppone la lettura del romanzo. Cioè, potete scorrerla anche se non l'avete letto, ma in questo modo sarete edotti sulla trama.

LETTERA DEDICATORIA AL REV. DOTT. DRYASDUST, F.A.S.
Walter Scott - che si è sempre e solo firmato "L'autore di Waverly" per evitare che il suo buon nome di poeta potesse essere insozzato da componimenti di genere inferiore* - ci tiene a precisare che, come esperimento per assicurarsi una certa libertà, aveva intenzione di assumere lo pseudonimo di Laurence Templeton e pubblicare Ivanhoe come se fosse un'opera prima. Ma gli editori bricconi, spingi e spingi, l'hanno obbligato ad ammettere d'essere anche l'autore di Waverly, per pompare le vendite. Ah, gli avidi marrani! Altri hanno però sostenuto che Scott si sia firmato Templeton per paura che Ivanhoe facesse un buco nell'acqua nel mercato librario (e lui stesso ammette certe perplessità, nel passare dall'ambientazione scozzese a quella inglese)... solo quando si è assicurato che piaceva si è deciso a smascherarsi. La cosa interessante è che, essendo un grande scrittore, Scott non solo ha inventato il nome Templeton, ma ha inventato anche, possiamo dire, il personaggio che porta il suo nome, e gli ha fatto scrivere una lettera (di dedica al Reverendo Dryasdust) in cui compendia quello che è, sotto ogni punto di vista, un credo poetico tra i più completi che io abbia mai letto. Lo parafraserò, cercando di leggere tra le righe quello che sinceramente Scott voleva dire.
Innanzitutto la questione della lingua. Scott ammette, prevenendo le critiche che s'immagina gli saranno rivolte, di aver usato forse un linguaggio che mal si adatta, storicamente, al periodo in esame**; ma ecco il suo ragionamento, che io condivido appieno: i dialoghi saranno, causa forze maggiori, traduzioni, dato che non può umanamente trascriverli nell'inglese antico e nel normanno che si parlavano all'epoca; conciosiacosacché, essendo punto fermo traduzioni, finzioni accettate dal lettore, potrà ben usare anche qualche traduzione più audace, se questo aiuterà il lettore a capire, e le sue pagine ad esprimersi. Allo stesso modo farà coi costumi, traducendoli in un metro di più facile comprensione per i suoi contemporanei e connazionali: e per giustificarsi tira in ballo Le Mille e Una Notte di Galland come esempio di adattamento di successo da costumi stranieri. Il momento forse più bello della lettera è quando fa capire di aver studiato a lungo il periodo storico di riferimento - cosa che dovrebbero fare tutti gli scrittori -, ma si schernisce dicendo di aver comunque commesso qualche errore. I lettori più preparati lo perdoneranno, a maggior ragione perché lui non ha scritto per loro - ed ecco che qui già sembra anticipare, come suggerimento lasciato in sospeso, l'idea di Lettore Modello di Eco, che ben raramente, quando si tratta di un romanzo storico di fantasia, possiede un'enciclopedia mentale completa ed esatta del periodo in oggetto. Fermo restando che se è necessario tradurre costumi e linguaggio degli antichi, bisogna lo stesso stare attenti a non tradirli: non bisogna cioè attribuir loro sentimenti o espressioni che sono propri dei loro discendenti. Diciamo piuttosto che il lavoro dello scrittore è lavorare su ciò che i cuori antichi e quelli moderni hanno in comune, piuttosto che di magnificarne le differenze. Quindi occhio, perché Scott ci tiene a farci sapere che regole ce ne sono. Anzi apostrofa gli altri scrittori sullo stile da usare: uno troppo arcaizzante è anche anacronistico, perché basta leggere Chaucer per rendersi conto che, tranne poche parole, lui sì è comprensibile. Esagerare con l'aria arcaizzante è un vezzo moderno, e al massimo può creare una lingua inventata (come fece involontariamente Chatterton). Per essere fedeli al linguaggio, bisogna ricalcarne la sintassi, non pomparne il lessico.
Chicca finale. Ecco che, come Manzoni, non solo Scott parla di mescolare, come ha fatto, la finzione con la realtà(!), ma inventa persino un manoscritto originale, il MANOSCRITTO WARDOUR, su cui Templeton avrebbe basato la sua ricostruzione, e che quindi funge da garanzia del suo lavoro***. Ditemi voi se già questo non vale la lettura!

I PERSONAGGI
Un florilegio di personaggi memorabili, l'Ivanhoe. L'unica eccezione la fanno, fatalmente, i protagonisti. Bisogna accettarlo come un male necessario. Wilfred di Ivanhoe è il cavaliere perfetto, senza macchia e imbattibile, nelle giostre come nei tornei, sempre pronto a sacrificarsi, onorevole, giusto e mite: insomma, una noia mortale. Come lui pure, sebbene in misura minore, la sua viziatissima e virtuosissima innamorata Lady Rowena. Ma ecco che Scott già intuisce questa contraddizione, e cioè che non poteva scrivere un protagonista che fosse anche un buon personaggio, e per questo forse ne limita a bella posta la presenza nelle pagine del romanzo. Vediamo Ivanhoe partecipare alla giostra all'inizio della storia, dopodiché passa una lunga convalescenza prima di riapparire, veloce come una meteora, negli ultimi capitoli del romanzo (in realtà è spesso presente altrove, ma tanto non fa niente, e quindi è come se non ci fosse). Dove Scott dà il meglio di sé, e dove infatti è insuperabile, è nel delineare i suoi personaggi di contorno, perché lì non ci sono più convenzioni letterarie ad intralciarlo. Tutti, nessuno escluso: Wamba, buffone pieno di risorse, Gurth, Cedric il Sassone, Aethelstane, che è insieme accidioso e valorosissimo, il vizioso ma al nocciolo simpatico Priore di Aymer, Robert di Locksley (ehm ehm!) e la sua allegra brigata, Isaac di York e la sua bellissima figlia Rebecca****, Front-deBeuf, il nobile, coraggioso, intelligente e traditore Fitzurse, De Bracy, che è il capitano di ventura più cavalleresco che la storia rammenti... persino il Principe Giovanni, nelle sue mille contraddizioni, nella sua piccolezza d'animo, è infinitamente amabile, perlomeno perché quando appare rallegra magicamente ogni scena. Tra tutti, credo, ne spiccano due in particolare, per la felicità con cui sono descritti: da una parte il Templare Brian de Bois-Guilbert, miglior spada dell'ordine, vero antagonista della storia, così tragicamente scisso tra l'amore per Rebecca e la propria ambizione, il proprio orgoglio, morto letteralmente di rabbia e di sentimenti contrastanti; dall'altra Riccardo Cuor di Leone, salutato da tutti i personaggi positivi del romanzo come il vero e giusto Re d'Inghilterra, coraggioso, leale, simpatico, impareggiabile in guerra e nel combattimento; eppure così aspramente criticato da Scott, prima per bocca di Fitzurse e poi per quella del narratore onnisciente, a cui non si possono certo imputare faziosità di alcuna sorta. Ce ne offre un ritratto, mi assicura la mia scarsa conoscenza del periodo, più che esatto: Riccardo fu un eccellente spadaccino, un nobile cavaliere, un avventuriero di buon cuore; ma fondamentalmente un principe negato per la gestione del regno, a cui ha sempre preferito le imprese personali; più preoccupato del proprio buon nome che di quello del suo governo; fondamentalmente, uno statista miope e un re assente - tutto questo, ironia della sorte, proprio a causa di quei bei valori cavallereschi che lo hanno reso tanto famoso.

SCELTE DI STILE
Ivanhoe lo si legge tutto d'un fiato, nonostante lo stile sia un po' datato, in certi punti addirittura farraginoso, e possa far storcere il naso a molti teorici dell'invisibilità dell'autore. La voce narrante non fa altro che intervenire e ricordarci che stiamo leggendo un romanzo, seppur basato sugli indubitabili fatti del Manoscritto Wardour. Il primo capitolo è dedicato a una serie di giochi di parole meravigliosi, che però forse capirà solo chi ha una certa familiarità con la linguistica - per quanto elementare - della lingua inglese, per cui una stessa cosa assume due nomi diversi, il primo derivato dall'antico inglese e l'altro dal francese, a seconda del contesto in cui viene si viene a trovare*****. Già da qui si capisce dove Scott voglia andare a parare. L'indizio è lampante, e guai a ignorarlo. È stato proprio Umberto Eco, in Lector in fabula, ad aver usato l'Ivanhoe come esempio di storia con due isotopie (cioè due linee di lettura): la prima, la storia di Wilfred di Ivanhoe che desidera sostenere Riccardo Cuor di Leone e sposare Lady Rowena; la seconda, una trasfigurazione dei contrasti che divisero sassoni e normanni nelle generazioni immediatamente successive la Battaglia di Hastings, e di cui ancora si possono sentire gli echi in certe etimologie di parole.
Si potrebbe facilmente osservare che Scott ha imbastito una storia ingenua, piena di agnizioni prevedibili (che il viandante misterioso sia il figlio di Cedric, che il Cavaliere del Lucchetto sia Riccardo Plantageneto... e dire che come meccanismo è vecchio come il cucco, e risale alle tragedie greche, per non dire ai poemi omerici), con traiettorie abbastanza ovvie per tutti i personaggi, e neppure una morte nella fazione dei "buoni". Eppure questa storia conserva, a distanza di due secoli, un'innegabile efficacia, una felicità di lettura che raramente si troverà altrove. Insomma, si può dire senza paura di suonare ingiusti che lo stile di Scott è adeguato al periodo storico in cui scrive; e, come Borges su Cervantes, che qualunque scrittore alle prime armi sarà capacissimo di elencare tutte le sue mancanze, ma che ben pochi saprebbero riottenerne la grandezza.


_____
*Era un gioco, più che un autentico snobismo; e infatti che fosse lui ad aver scritto Waverly e Ivanhoe era il segreto di Pulcinella.
**In un punto, ma forse è colpa della mia traduzione, si tira in ballo una tabacchiera - e si noti che Ivanhoe è ambientato circa trecento anni prima la scoperta dell'America.
***La cosa non è poi così straordinaria. Manzoni conosceva l'opera di Scott perlomeno dal suo secondo soggiorno parigino, anche se tacciava Ivanhoe di scarsa storicità (non gli garbava la rappresentazione di Riccardo Cuor di Leone) e di poca verisimiglianza nelle parti inventate. D'altro canto è famoso il giudizio di Puskin della superiorità di Manzoni su Scott.
****Anche i lettori avevano capito che questi personaggi erano migliori dei protagonisti, vuoi che si vedono di più. Scott si scusa con loro per non aver potuto far sposare, alla fine, Ivanhoe e Rebecca: essendo lei ebrea e lui cristiano, sarebbe stato anacronistico!
*****Dice l'ottimo Wamba: "[...] perciò quando l'animale è vivo ed è affidato alle cure di uno schiavo sassone, porta il nome sassone (pig), ma diventa normanno ed è chiamato maiale (porc e, successivamente, pork) quando è portato nella sala del castello per il banchetto dei nobili". Che acume!

Commenti

Post popolari in questo blog

Che schifo, la tripofobia!

Le lezioni americane di Italo Calvino: Leggerezza, Rapidità, Esattezza

Tra storia e narrativa: L'esempio di 300 di Frank Miller