Di conigli, linguistica e traduzioni


Nella postfazione al saggio J.R.R. Tolkien: La via per la Terra di Mezzo, Tom Shippey, filologo e studioso tolkeniano, scrive:

«[...] Che l'inglese sia "intrattabile" è certamente opinione comune, e il suo locus classicus in tempi recenti è probabilmente il brano tratto dai Quattro Quartetti di T.S. Eliot (1944):
Cercando di imparare a usare le parole, e ogni tentativo
è un inizio del tutto nuovo, e un diverso tipo di fallimento
perché si è solo imparato a trovare le parole migliori
per la cosa che non c'è più bisogno di dire, o il modo in cui
non si è più disposti a dirla. E così ogni azzardo
è un nuovo avvio, un'incursione nell'inarticolato
con equipaggiamento logoro in costante deterioramento
nel generale disordine dell'imprecisione del sentimento...
Si potrebbe confrontare questo testo con l'opinione espressa da Edmund Wilson nel Castello di Axel, secondo cui il significato delle parole dipende da "una ragnatela di associazioni tanto intricata, e in ultima analisi tanto misteriosa, quanto la nostra mente e il nostro corpo", mentre l'uso delle parole porta inevitabilmente a "riempirle di suggestioni con le nostre inflessioni, le nostre pause, i nostri toni". Del tutto nuovo, equipaggiamento logoro, mistero, suggestione: parole vuote che vengono colmate dalla forza di volontà individuale. Ciò che questi brani hanno in comune è la convinzione che il linguaggio, essendo molto complicato, stia al di là della ragione; le inflessioni sono private e personali: ciò che una persona vuol dire non può mai essere capito completamente da un'altra. Come nel paradosso di "Achille e la tartaruga", ci si può solo avvicinare sempre più a ciò che si vuole dire, ma senza mai arrivarci esattamente.»
Shippey espone questi punti di vista solo per poterli più agevolmente negare. Eppure queste riflessioni mi hanno portato alla mente un esperimento mentale a cui mi interessai, circa cinque o sei anni fa, sempre nel campo della linguistica, del logico e filosofo Willard Van Orman Quine. Stavo preparando la tesi triennale e, anche se non c'entrava poi molto col mio argomento, in biblioteca presi in prestito due volumi di saggi di questo autore. Quine, diciamo, sognò l'incubo delle traduzioni.

Uno studioso si trova a dover imparare una lingua nuova, mai tradotta prima, senza conoscerne altre che facciano da ponte tra sé e i parlanti nativi, quindi senza nessuno che, semplicemente, gliela possa insegnare. Col tempo e la frequentazione lo studioso giunge a collegare un significante, gavagai, con il corrispondente coniglio nella sua lingua. A questo punto Quine si pone un problema non da poco: e se non fosse il coniglio in generale a essere significato dalla parola gavagai, ma una determinata azione del coniglio, o un determinato stadio spaziotemporale del coniglio(1)? Potremmo, noi che non abbiamo una parola del genere, immaginarne il significato e la rispettiva concettualizzazione? Potremmo mai tradurlo correttamente, o anche solo capire di averlo sempre tradotto sbagliando?
L'esperimento si presta a fantastiche ramificazioni. Ammettiamo che le lingue straniere non siano mai state acquisite, ma solo adattate alla bell'e meglio da un popolo all'altro(2). Immaginiamo che le diverse nazioni non si capiscano, e agiscano di concerto solo per un colpo di fortuna; immaginiamo poi di applicare questa teoria non alle nazioni, bensì agli individui, e chiediamoci se siamo mai stati capiti, o se siamo mai stati veramente in grado di capire gli altri, e se non abbiamo invece tradotto le loro parole in un metro di più facile comprensione per le nostre orecchie. Il problema è forse infinito, e, chissà, potrebbe aver assillato le notti di Quine. Non è una semplice paura, ma addirittura un dolore che conosciamo tutti: quello dell'incomprensione.


NOTA DEL 23 MARZO 2019: Mi sono di recente imbattuto nell'esperimento mentale di Wittgenstein noto come "Lo scarabeo nella scatola", in cui si suppone che un gruppo di persone abbiano tutte in mano una scatola, e chiamino "scarabeo" la cosa che c'è dentro la scatola, ma non potendo confrontarla gli uni con gli altri arriviamo alla conclusione che nessuno sa se gli altri chiamano "scarabeo" ciò che lui stesso ha chiamato "scarabeo". Direi che l'esperimento, anche se tratta della nomenclatura di fenomeni psicologici, è abbastanza rilevante ai fini della nostra trattazione.



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(1) Quine scrive: "[...] chi ci dice che gli oggetti cui il termine si applica siano proprio conigli, anziché semplici stadi, o piccoli segmenti temporali di conigli? In entrambi i casi, infatti, le situazioni stimolo che ci inducono ad assentire a Gavagai sarebbero le stesse per coniglio" (W. Quine, Significato e traduzione). Il punto di Quine, all'interno di un dibattito più ampio, è che il significato non può essere determinato univocamente, perché la verifica empirica sottintende una presa di posizione del verificante a livello ontologico.
(2) Credo che qualunque traduttore, nell'impossibilità di rendere questo o quel termine, sosterrebbe la presente ipotesi. Per farla semplice, pensate a una lingua che non abbia una parola per "cagnolino", e il traduttore la debba rendere sempre con "piccolo cane" o con "cucciolo di cane". Siamo tutti d'accordo che in questo modo le sfumature meno ovvie dell'italiano "cagnolino" andrebbero perdute!

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